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L’ultimo strazio: i morti senza nome

SEGNI Ci si aggrappa ai test del Dna. Una donna in ospedale riconosciuta grazie a un tatuaggio

L’ultimo strazio: i morti senza nome

nostro inviato a Viareggio (Lucca)

È come se quella dannata bolla di gpl, che ha seminato l’inferno a Viareggio, non si fosse ancora dissolta. Continuano a lavorare duramente vigili del fuoco, volontari e tecnici. Lavorano per tradurre nei fatti quella parola che tutti, in queste ore, stanno sentenziando o implorando: «normalità». Ma non c’è, non ci può essere, che diamine, «normalità» se questa tragedia senza precedenti resta ancora dentro un’altra bolla, forse ancora più perfida e malefica. Che imprigiona tutto e tutti nell’incertezza. Nel dubbio. Cadaveri senza un nome, feriti senza un nome, dispersi senza un nome. Resti carbonizzati cui si potrà dare, chissà quando, un’identità grazie alle strazianti, inconfutabili prove del dna: un dente, un’unghia, i segni di un’operazione chirurgica. Che sono le solite litanie del dolore per chi aspetta, con la testa bassa e gli occhi lucidi, un sì o un no. Nel cantuccio gelido di un obitorio o davanti alla porta di un reparto di terapia intensiva.
Fa venire i brividi solo a scriverlo ma sono in molti a pensare che gran parte di questi tizzoni, avvolti dalle bende come mummie, feriti con ustioni dell’80 per cento sul corpo che soltanto la pietà fa ancora chiamare uomini e donne, potranno essere identificati soltanto quando verranno sepolti. Solo quando la «procedura» tecnica potrà essere avviata nel rispetto delle leggi, giusto per sistemare una carta d’identità su una tomba.
Dov’è finito e come è finito Antonio Farnocchia, il fornaio di 51 anni uscito con la sua bicicletta, proprio attorno a mezzanotte, per andare a lavorare? Una bicicletta carbonizzata, che potrebbe essere la sua, l’hanno trovata sotto un cavalcavia, ma non ci sono resti umani accanto. Nemmeno quel mucchietto di ceneri che si potrebbe mettere nell’urna di uno che ha scelto di farsi cremare. Non è improbabile, dunque, che le fiamme possano aver sparpagliato nell’aria i suoi resti, facendoli ricadere tra detriti.
Ecco soltanto un esempio terrificante di cosa si porta dentro la bolla del dubbio e dell’incertezza. Che, all’atto pratico, si manifesta, in tutta la sua drammaticità, nelle sconfortanti contraddizioni, distribuite ai giornalisti dalla Procura di Lucca e dall’Usl 12 di Viareggio. Numeri differenti, supposizioni differenti, sull’identità di morti e feriti. Verità che sono andate avanti, altalenanti, ieri, per l’intera giornata. Prudenza comprensibile si dirà, ma anche e sempre, soprattutto, dubbio. Se prendiamo per buone le dichiarazioni dell’Azienda sanitaria dobbiamo arrivare a scrivere in serata il bollettino di una strage che dà o darebbe un nome e un cognome a dieci delle 19 vittime. Ma solo quattro sono quelle identificate con la massima sicurezza dalla polizia scientifica e dai medici legali come Maria Luisa Carmazzi, Ilaria Mazzoni, Elena Iacopini e Luca Piagentini. Le altre sei vittime invece «hanno un’identità ma non risultano ancora ufficialmente identificate». È il linguaggio della burocrazia per dire che nessuno dei parenti ha ancora firmato il riconoscimento formale che accompagna o meglio concede il via libera al certificato di morte. In questa sorta di «limbo della morte senza un timbro» si trovano Hamza Ayad, il ragazzino eroe che si è immolato per salvare la sorellina Iman, poi deceduta a Roma, il loro padre Mohamed Ayad e la loro madre Aziza, che se ne è andata ieri, lasciando come sola disperata e unica sopravvissuta di questa famiglia marocchina la ventunenne Ibitzen. E poi Lorenzo Piacentini e Boumalahaf Noureddin. Restano da identificare altri otto carbonizzati . Ma dubbi e incertezze aleggiano anche sui letti asettici che hanno accolto 25 feriti. Tra i feriti gravissimi una donna interamente coperta d’ustioni cui non si riesce a dare un’età e un’altra, ricoverata a Cesena, che ha un nome, un cognome e un’età: Claudia Frasca, 36 anni, le ha avute, grazie a suo fratello che si è ricordato che aveva tatuato una rosa su una caviglia. Una rosa.

L’unica, forse, che la torcia mostruosa che ha squarciato il cielo di Viareggio, cancellando per sempre via Ponchielli ha risparmiato, nei giardini di quelle case.

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