Il dibattito sullo stato dell’Università italiana potrebbe sembrare una questione per addetti ai lavori, e in parte certamente lo è, se da essa non dipendesse la formazione e dunque il futuro dei nostri giovani, classe dirigente di domani. Dopo l’ottimo articolo di Alessandro Gnocchi, il successivo intervento di Paolo Miccoli ha reso ancora più chiaro chi porta sulle spalle una parte considerevole delle responsabilità del disastro di cui si sta discutendo. Onestamente Miccoli, già al vertice dell’Anvur (Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca), ammette che la trasformazione antropologica del professore universitario, da dispensatore del sapere frutto del lavoro di studioso e ricercatore, in «buroprofessore», è dovuta ad una «degenerazione del sistema di valutazione su cui poggia l’intero sistema universitario». Siamo grati a Paolo Miccoli di ammetterlo, ma ci sembra che, lungi dal proporre un operoso ravvedimento, o «ripensamento», l’ex presidente dell’Anvur sposti la questione su altro ovvero sul rapporto fra insegnamento e ricerca, che sicuramente è tema importante, ma a nostro avviso mal posto e che avrà ragione di essere affrontato solo dopo aver risolto il problema principale che appunto sta nei criteri di valutazione della ricerca fondati a tutt’oggi su criteri quantitativi e non qualitativi di cui proprio l’Anvur porta la responsabilità. Posto che certamente non è facile, e talvolta addirittura pericoloso fondare la selezione dei professori universitari su un mero criterio di qualità, che facilmente si presta all’arbitrarietà del giudizio di una commissione chiamata a giudicare il lavoro di uno studioso. Posto anche che in nome del giudizio di qualità si può aprire la strada ad una valutazione che confonda qualità e impostazione ideologica (è ampiamente avvenuto anche in presenza degli attuali criteri fondati soprattutto sulla quantità). Posto, infine, che certamente in buona fede, da quando è stata istituita l’Asn (Abilitazione scientifica Nazionale), si è cercato un punto di equilibrio che valorizzasse la qualità con l’istituzione delle riviste di fascia A, ovvero riviste che per loro natura (direttore comitato scientifico, revisione fra pari ecc.) garantissero la pubblicazione di studi di livello eccellente.
È un dato di fatto che nella maggioranza dei casi (ci sono sempre lodevoli eccezioni, per fortuna) la qualità non è stata premiata. Anzi. Le riviste di fascia A sono state un fallimento (ormai ce ne sono un numero ragguardevole che in cambio di un cospicuo esborso in denaro pubblicano qualunque cosa), e quasi nessuno più fa vera ricerca – per esempio sono sempre meno le pubblicazioni di fonti inedite, che richiedono molto tempo di ricerca in archivio – soprattutto fra i giovani che aspirano alla carriera universitaria. Il motto ormai è «pubblica o muori», quindi largo a numerosi inutili articoli o saggi privi di originalità e profondità, per lo più rimasticature, più o meno abili, di quanto già pubblicato.
Un primo passo per cercare di raddrizzare questo squinternato sistema è stato fatto con il Ddl di riforma del reclutamento dei professori universitari, da poco passata al vaglio del Senato e ora alla Camera. Il Decreto sembrerebbe cercare, almeno in parte, di rimettere a posto le cose per porre qualche difficoltà in più a chi voglia fare carriera universitaria in ragione di meriti dinastici odi «amichettismi» vari, per dirla con un lessico di gran moda.
Fra le novità (ma in realtà è un recupero del buono buttato via nei decenni precedenti) la discussione delle pubblicazioni che il candidato professore, associato o ordinario, dovrà sostenere di fronte ad una commissione formata da cinque suoi pari. A questa discussione il Ddl aggiunge una prova di didattica su un tema inerente al settore concorsuale. Il candidato insomma verrà chiamato a dimostrare non solo di avere i titoli e le pubblicazioni qualitativamente dignitose, ma anche di saper fare una lezione. Un primo passo nella direzione auspicata da Miccoli.
Infine, per incentivare le università a selezionare poi “chiamare” il candidato veramente più meritevole, viene istituito, alla fine del primo triennio di ruolo dei neo-assunti, una valutazione che, se positiva, porterebbe all’università di appartenenza un incremento premiale del finanziamento ordinario. Insomma, dovrebbe convenire assumere un professore bravo piuttosto di un mediocre amico di un amico o «figlio di», et similia.
* Professore Ordinario di Letteratura Italiana Contemporanea (UNINT).