L'alibi della stabilità per non fare niente

La parola dell'autunno è stabilità. Prima c'era la responsabilità, prima ancora la solidarietà (nazionale), e poi l'urlo lacerante della crisi o il lungo lamento dello spread oppure semplicemente "ce lo chiede l'Europa"

Inchiodati alle parole. Ad ogni cambio di stagione gli italiani si ritrovano prigionieri di un feticcio, di una reliquia o di un amuleto, di un abracadabra. Ed è come se da questa formula magica, ripetuta come un mantra o una litania, dipendessero tutte le sorti del Paese e la solidità di un governo. La parola dell'autunno è stabilità. Prima c'era la responsabilità, prima ancora la solidarietà (nazionale), e poi l'urlo lacerante della crisi o il lungo lamento dello spread oppure semplicemente «ce lo chiede l'Europa». Anni fa ci siamo immolati inseguendo il dovere morale del «non possiamo non entrare nell'euro». È così che nascondendosi dietro le parole la politica ha smesso di scegliere, si è impantanata, rassegnandosi alla sopravvivenza e al tirare a campare. È una scorciatoia che da qualche tempo ama prendere anche Enrico Letta. L'uscita dalla crisi si fa più lenta e difficile? Colpa dell'instabilità politica. Il deficit sfora il tre per cento? Idem. Solo che questa storia sta diventando un alibi.

Questo governo non è stabile nel dna. Nasce fragile. Nasce recalcitrante. È un matrimonio combinato. È il disegno a tavolino dell'uomo che sta sul colle. È il maldipancia di molti compagni di partito di Letta, che stanno in barca con l'aria di chi sta lì lì per vomitare. Il governo Letta non è mai stato stabile. Lo può diventare sulla base di quello che fa, sui suoi progetti, sulle sue visioni, sul suo carisma. Questo vale ancora di più per un governo che molti volevano balneare, precario. Se ti stanno rubando il tempo l'unica scommessa è rilanciare, disegnando un futuro. Qualcosa su cui i tuoi turbolenti alleati sono costretti a smascherarsi, a metterci la faccia. È il momento di gettare sul piatto la capacità di leadership. Il premier, invece, come altri, si sta rifugiando nella parola magica, che è un po' come scaraventare la palla in tribuna quando la difesa balla. Non ripartenze, ma viva il parrocco. Una volta si può fare, poi crolli. La verità è che la stabilità non è un valore assoluto. Da sola non dice nulla. Si può essere stabili e navigare a vista. Si può stare stabili come dentro una dittatura. Si può stare stabili solo per far arrivare i treni in orario o inventare paradossali piani quinquennali.

E non è certo il caso di Letta. Ma si può stare stabili e dire «signorsì» al primo che passa con la patente di burocrate europeo. Si può stare stabili continuando a mettere tasse solo per fare concorrenza allo sceriffo di Sherwood. Si vive stabili senza andare al voto. Si può essere stabili senza vedere un futuro. Uno poi dice: vabbè ma senza stabilità i mercati ci puniscono, l'Europa non si fida, le riforme non si fanno. Perché invece inscenando una finta concordia, un «facciamo finta che tutto va ben», il mondo appare migliore? La via d'uscita dalla crisi passa per una finzione? Questa storia ricorda quelle coppie che si detestano, che si lamentano con amici, conoscenti, dal giornalaio e dal parrucchiere, pronte a sputarsi addosso appena entrano in casa, ma stanno insieme per la stabilità della famiglia.

Perché non vogliono lasciare all'altro la casa, perché con un solo stipendio nessuno dei due ce la fa a sopravvivere. O, semplicemente, perché hanno paura. La stabilità, l'Europa, lo spread alla fine sono alibi, scuse, finzioni. Sono il nome che diamo alle nostre paure.

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