L'America pronta a un nuovo boom

Il Pil che vola, le aziende tessili asiatiche che aprono fabbriche in Georgia. E la Cina che compra 760 milioni di iPhone. La frontiera èdi nuovo a ovest

L'America pronta a un nuovo boom

Scatta, rallenta, riparte, rimonta: l'America non si ferma. È l'impero che colpisce ancora. È come se cercasse la sua di America, sempre. L'ha ritrovata: l'economia ha ripreso a girare, i consumi hanno ricominciato a tirare, la fiducia è tornata a salire. Si può andare verso la felicità, che poi è l'ambizione vera di questo Paese. Così vera da essere un diritto inserito nella Costituzione. Gli ultimi dati sul Pil raccontano una crescita del 4,1 per cento, superiore alle attese, tanto che il Fondo monetario internazionale ha dovuto rivedere al rialzo le stime di crescita per il prossimo futuro. La disoccupazione cala, gli stipendi cominciano ad aumentare, le spese delle famiglie anche, il mercato immobiliare torna su. Siamo al più zero virgola, ma ci siamo. È la strada che si apre, quando devi abbassare il parasole perché sei appena uscito dal tunnel e vieni investito dalla luce. Si ricomincia. Anzi è già cominciata. L'America ha faticato, s'è depressa, s'è messa al lavoro. A ciascuno il suo: la Fed che fa la Banca centrale, stampando moneta quando era necessario, dando stimoli quando era fondamentale. Poi Wall Street ha fatto Wall Street e Main Street ha fatto main street, cioè l'industria. Bisognava licenziare, si licenziava. Adesso si riassume. Pure la politica ha fatto politica. Cioè c'ha provato a complicare la situazione, ha prima alzato il debito pubblico a una cifra allucinante, poi ha ingaggiato un duello infinito fino al shutdown e poi anche oltre. Il Paese ha resistito anche a questo, s'è ripreso nonostante questo. È un insegnamento pure per noi: la politica conta, ma non è tutto. Ci si può rimettere in moto anche se il Parlamento e il governo litigano su tutto. Il dato sul Pil migliore negli ultimi tre anni è il polmone che pompa aria nel grande corpo di questa nazione che, piaccia o no, trascina il mondo. La Cina, hanno detto tanti. La frontiera dell'est, con i suoi costi bassi e il suo territorio inesplorato, col suo mercato tutto da conquistare. Come se l'America fosse già sconfitta. Ecco: sono state smentite anche tutte le teorie catastrofiste. Declino, declino, declino, si è ripetuto per molto tempo come fosse una via di mezzo tra un mantra e un presagio. Una anno e mezzo fa Foreign Policy pubblicò un saggio di Zbigniew Brzezinski titolato «After America». Per l'ex segretario di Stato di Jimmy Carter non c'erano speranze: gli Stati Uniti erano il passato e si sarebbero dovuti adattare alla nuova realtà. A cavallo tra la fine del 2010 e l'inizio del 2011 Gideon Rachman scrisse, sempre su Foreign Policy e poi sul Financial Times: «La fine dell'era americana è nei fatti ed è già cominciata».

I numeri dicono il contrario. Perché adesso la tendenza degli Stati Uniti è positiva, quella della Cina è negativa: cioè Washington ha un Prodotto interno lordo che migliora le sue performance, mentre quello di Pechino rallenta. «La nuova Cina sono gli Stati Uniti», ha detto pochi giorni fa Remo Ruffini, numero uno di Moncler che dopo aver fatto boom in Borsa vuole andarsi a prendere il mercato estero. E non guarda a Oriente, ma a Occidente. Cioè: nonostante sia un potenziale di trecento milioni di abitanti, contro un miliardo e quattrocento milioni è approdo più attraente. Di più: prendersi l'America significa ancora prendersi il mondo, per l'effetto domino sugli altri mercati e per l'indotto che crea. Vale per la moda, vale per altro. La Fiat è un caso perfetto. È una questione di prospettiva e quella prospettiva è americana, non cinese. Volete di più? Sono gli stessi cinesi che lo pensano: l'immenso comparto tessile del Dragone, quello che pareva senza concorrenza, che era diventato il punto di arrivo e produzione per tutto il mondo, ha cominciato a delocalizzare. Va in America: perché costa meno. E non è che gli statunitensi abbiano abbassato le paghe al livello di quelle delle aree neoindustriali della periferia di Shanghai. No. La differenza la fanno molte cose. La prima: i costi energetici. Perché l'America in questi anni di crisi ha lavorato sulla sua infrastruttura energetica: lo sfruttamento dei giacimenti di shale gas è stato fondamentale. Poi c'è il resto: migliori strutture di trasporto, la possibilità di ottenere prestiti più facili e meno costosi con i tassi di interesse ai minimi e la possibilità di aggirare i dazi doganali. E a questo si aggiungono gli sgravi fiscali concessi da molti Stati americani, soprattutto quelli del sud-est che offrono condizioni che alcuni definiscono difficili da resistere. Il risultato è che nel 2003 produrre un chilogrammo di filato negli Stati Uniti costava 2,86 dollari a fronte dei 2,76 dollari in Cina. Nel 2010 il costo di produzione al chilogrammo è aumentato a 3,45 dollari negli Stati Uniti ma è balzato a 4,13 dollari in Cina. Anche sulla tecnologia, il mondo prevedeva l'invasione asiatica in America. Avrebbe dovuto essere una conquista. Invece il processo s'è invertito: la Apple ha firmato ieri l'accordo per portare l'iPhone a China Mobile, il gestore più grande del pianeta con 760 milioni di clienti. Significa vendere 15-20 milioni di telefonini in più, significa un potenziale utile per azione del 5 per cento l'anno prossimo. Il declino è un'altra cosa.

Il declino è una invenzione, forse per molti anche un auspicio. La cronaca ha invertito tutto, ha ristabilito l'ordine: i numeri spiegano la verità. La ricchezza è un obiettivo comune, l'America ha ripreso a correre perché non se ne vergogna.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica