Son qui tutto il giorno a far niente e mi accorgo che non è tempo perduto. Chi mai avrà potuto pensare e pronunciare queste parole? Un messicano con sombrero? Un pigro uomo del sud? Un bradipo del nord? Trattasi di Ermanno Olmi che così disse seduto all'ombra di un olivo, in una masseria salentina. Dico Olmi, non so se ho reso l'idea. Il lavoro nobilita l'uomo e lo rende simile alle bestie. È uno di quegli slogan che veniva alle orecchio ai tempi del liceo, il totale porta a questa equazione: lavoro-fatica-stanchezza-noia. È in circolazione un libretto bellissimo scritto dalla francese Françoise Heritier e ha come titolo «Il sale della vita», dovrebbe essere letto in tutti i luoghi di lavoro, al mattino, prima di intraprendere l'opera. Madame Heritier prende spunto da una cartolina con la quale un collega professore le racconta che sta trascorrendo una settimana di vacanza rubata al lavoro. Rubata? Ma no, la vita è tutto ciò che accade mentre ci occupiamo di altro (Oscar Wilde), la vita è ciò che abbiamo dimenticato osservando nervosamente l'orologio.
Lavorare di meno rende felici, non ditelo ai precari o ai disoccupati perché vi metterebbero le mani addosso anche nei giorni festivi. È importante stabilire che cosa significhi sul serio «lavorare meno». Che cosa è il tempo libero? Libero da chi e da che cosa se è diventato un impegno anche andare al cinematografo, giocare una partita di football, organizzare una cena con gli amici, presi noi tutti, come siamo, dal logorio della vita moderna, senza nemmeno il conforto del Cynar? Il lavoro riempie la testa e il corpo, occupa il tempo e lo spazio ma lui sì che è un ladro, ci ruba il resto che poi andiamo a recuperare nel fine settimana o nelle partenze intelligenti. D'accordo, se non si fatica non si va nemmeno al mare o ai monti ma sarebbe opportuno decelerare, rallentare, ogni tanto mettere la freccia e invece di puntare verso l'autogrill cercare un'oasi per riflettere. In questo caso lavorare di meno, anche con il cervello, può aiutare a lubrificare il medesimo. Il dibattito estivo si apre su vari fronti, parte dal sesso che ha scadenze come il latte e arriva al lavoro che ci trascina via da una realtà non più tale. Personalmente sono un indipendente molto, troppo dipendente. Dal lavoro. Senza il quale mi ammalo, lo specchio riflette una figura grigia, il telefono non squilla ergo sono cotto, dimenticato, trascurato. Il lavoro è la droga, il giornale è il pusher, ma con la fortuna di poter scegliere, frequentare, titillare il lavoro stesso. Scrivere, parlare, comunicare non dovrebbe essere faticoso ma diventa necessario, indispensabile nel momento in cui è fonte di salario, dunque di sopravvivenza. Ricordo e segnalo una splendida frase dello scrittore americano Robert Orben: «Ogni mattina mi sveglio e spulcio la lista Forbes degli uomini più ricchi del mondo. Non ci sono e dunque vado a lavorare».
Sottoscrivo, prendo due piccioni con una macchina per scrivere, la giornata ha un inizio ma non ha fine, l'adrenalina riempie pintoni e damigiane. Molto, se non tutto, dipende dal luogo, dalla location come dicono quelli che parlano le lingue. Mi spiego: l'ufficio (sostantivo tristissimo, a volte è abbinato a funebre) può essere un sito piacevole ma anche un rettilario. Nel primo caso stimola la presenza, nel secondo suggerisce la fuga.
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