Lavoro, Bersani disperato: Monti non cede sull'art. 18 lui deve rientrare nei ranghi

Monti mette il Pd all'angolo. Il segretario abbassa i toni, ascolta Napolitano e assicura: "Non staccheremo la spina al governo ma la norma va cambiata"

Lavoro, Bersani disperato:  Monti non cede sull'art. 18 lui deve rientrare nei ranghi

È stata necessaria la moral suasion del Quirinale per indurre lo stato maggiore del Pd ad abbassare i toni dello scontro con il governo sull’articolo 18, e ad aprire una linea di credito a un provvedimento «in gran parte buono», come diceva ieri sera Pier Luigi Bersani, e comunque «migliorabile» in Parlamento.

Le preoccupazioni di Giorgio Napolitano sull’inasprirsi del clima sociale e politico attorno all’esecutivo, sul tornante decisivo della riforma del lavoro, è ben leggibile dietro le parole con cui il segretario democrat ha preso le distanze dalla sinistra dei Di Pietro e dei Vendola, che ieri sfidavano il Pd a buttare all’aria la maggioranza: «Penso non sia il caso di staccare la spina al governo, perché nel provvedimento ci sono cose che vanno in senso positivo, cose serie da non buttar via, ma la norma sull’art.18 va cambiata», frena Bersani.

Ma lo scontro interno cresce ed è tutt’altro che sventato il rischio di spaccatura in un Pd che rischia di trovarsi all’angolo, lacerato tra le barricate e i «no» a oltranza della Camusso e la necessità di sostenere il governo di larghe intese del rigido professor Monti, che finora mostra di voler concedere assai poco sul fronte dell’articolo 18. Basta vedere l’Unità di questi giorni, e le prese di posizione dell’ala dura dei bersaniani filo-Cgil, cui si è accodata anche Rosy Bindi, e che continua a soffiare sul fuoco. Mettendo in discussione proprio quello che Vendola sollecita il Pd a fare, ossia «staccare la spina» ai tecnici. «È stato il governo a far saltare il tavolo sull’articolo 18, assumendosi una responsabilità politica che rischia di far cambiare la natura stessa dell’esecutivo, dividendo le forze che si erano coalizzate per salvare il paese», tuona Matteo Orfini, che siede nella segreteria del Pd. Dunque è proprio il governo ad aver «prodotto la rottura», e a questo punto l’atteggiamento del Pd nei suoi confronti «non è scontato». Dal responsabile economico Stefano Fassina arriva un giudizio altrettanto negativo sul governo, che nella partita-lavoro «purtroppo non è stato all’altezza, e non ha colto lo straordinario senso di responsabilità dimostrato dai sindacati». La colpa imperdonabile di Monti è quella di aver «scelto una linea che è un danno per i lavoratori e per il Paese e che alimenta in modo gratuito la conflittualità sociale». D’altronde, chiosa l’ex Ppi Giacomelli, «è più probabile che convinciamo la Camusso che Fassina a dire sì alla riforma».

Sono toni che, se prevalessero sui richiami alla prudenza che Napolitano ha personalmente rivolto a Bersani (che in cambio ha ottenuto rassicurazioni almeno sullo strumento legislativo con cui la riforma arriverà in Parlamento, che non sarà un decreto), porterebbero il Pd fuori dalla maggioranza (previa scissione dei filo-Monti), e il governo alla crisi.

Nel frattempo l’Unità, quotidiano Pd che rispecchia la linea del segretario, ieri avallava con la firma di punta di Francesco Cundari un’ipotesi assai pesante: Monti, secondo questa interpretazione, avrebbe cambiato le carte in tavola, cestinato l’accordo raggiunto al vertice dei tre segretari sul «modello tedesco» e ha «alzato la posta perseguendo la rottura con la Cgil». E tutto questo perché? Per «aprire la strada a una nuova formazione che si collochi al centro, e spaccare il Pd». Per far nascere il «partito di Monti», insomma, assorbendo l’ala moderata dei democrat montiani (lettiani, veltroniani, parte degli ex Ppi) e lasciando in braghe di tela e all’opposizione, «isolati e delegittimati», gli ex Ds. Scenario forse fantapolitico, certo speculare a quello ipotizzato dai Monti boys del Pd, che temono invece che da parte di Bersani e di D’Alema ci sia la tentazione di cercare la rottura sull’articolo 18 per andare al voto anticipato. Con l’obiettivo di bloccare la riforma del Porcellum.

Scenari a parte, nel Pd ieri si vedeva qualche spiraglio di trattativa col governo sul

percorso parlamentare della riforma: «Qualcosa si muove, Monti sta accogliendo le preoccupazioni non solo nostre ma di sindacati, vescovi e lavoratori», diceva l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, finora attestato sul «no».

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