I l Pd sembra sull'orlo dell'implosione. Anche un dirigente autorevole e navigato come Piero Fassino, che ne è stato (sia pur sotto altro nome) segretario, martedì sera era desolato: «Questo partito non c'è più», si è sfogato con alcuni compagni dopo la riunione notturna del «caminetto».
La frattura interna minaccia di allargarsi, tra chi vuole o Grillo o il voto, e chi punta ad un governo «istituzionale» col Pdl. Con il segretario, stretto tra pressioni contrapposte, che cerca di tenersi in sella e giocarsi l'ultima carta, un governo (a sua guida) con Grillo. La cui prima risposta («Sei un morto che parla, uno stalker, la fiducia non te la daremo mai») non pare esattamente incoraggiante.
Ma Bersani e i suoi sembrano decisi ad andare avanti, e contano sulla «base» grillina per far cambiare idea al loro capo. Il «vaffa» di Grillo è piombato sul leader Pd mentre era a pranzo con Nichi Vendola, a studiare la strategia per i prossimi giorni. «Venga a dirmelo in Parlamento», lo ha controsfidato Bersani. Che intanto ha steso una bozza di programma tutto in chiave grillina: «Un pacchetto di provvedimenti dei primi 100 giorni su lotta al disagio sociale e alla corruzione, sul conflitto di interessi, sostegno alla scuola pubblica e taglio alle spese militari», annuncia il leader di Sel, che cerca di far da tramite (via Dario Fo) con il guru 5Stelle.
Lo schema di gioco, come spiega un dirigente vendoliano, è questo: «Bersani chiede l'incarico a Napolitano, che non può negarglielo visto che è il capo della coalizione principale. Bersani mette sul tavolo una serie di proposte cui i grillini non possono dire di no, perché sono i loro punti, e apre le trattative. Intanto facciamo salire la pressione su Grillo, perché la sua base non capirebbe se dicesse di no». Nel frattempo, il Pd si deve mostrare pronto a rinunciare ad ogni poltrona, a cominciare da entrambe le presidenze delle Camere (per poi arrivare al governo), che vanno offerte al nuovo che avanza. Con grande entusiasmo di chi, nel Pd, aveva messo gli occhi su Montecitorio, su Palazzo Madama o sui ministeri più ghiotti.
Nella riunione di martedì notte, l'atmosfera era pesantissima, raccontano i presenti, e il più allegro parallelo evocato era con la Repubblica di Weimar. Nessuno dei big ha preso la parola, Veltroni se ne è andato dopo l'introduzione del segretario. Nero in volto: «Lui, per molto meno, si era già dimesso. E aveva preso 4 milioni di voti più di Bersani», ricordano i suoi. Ha parlato solo la falange dei «giovani turchi», fermi sulla linea: provare con Grillo, e se dice no si va al voto, e facciamo la campagna elettorale contro di lui che non ha voluto realizzare le cose promesse. E ci riprendiamo quei fiumi di voti che ci ha soffiato, con Renzi (sì, quello che fino a ieri si voleva espellere, e che ora è l'unica carta rimasta al Pd) candidato premier.
Gli altri, quelli che pensano che l'operazione sia un «suicidio», hanno taciuto. Ma le loro posizioni iniziano a trapelare, minando la linea del segretario. D'Alema teorizza un «governo di tutti». Violante apre al Pdl, per un governo che faccia le riforme costituzionali (e dunque duri alcuni anni): «Non dobbiamo avere pregiudiziali sulle alleanze». Si guarda con speranza a Napolitano, perché prenda in mano lui la matassa togliendola a Bersani.
I Giovani Turchi, da Orfini a Fassina a Orlando agli altri della sinistra bersaniana, fanno muro: «Una parte autorevole del Pd frena e vuole il governissimo, ma perderà», giurano, «vedrete che i parlamentari Pd non saranno disposti a sostenere alcun governo senza Grillo». E avvertono: «Le correnti non ci sono più, i parlamentari sono scelti con le primarie e sono liberi, non seguono più i capi».
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