L'enciclica a quattro mani: "La fede non è arrogante"

Nel testo di Francesco c'è molto di Benedetto XVI: il credo non si può imporre, si conquista con il dialogo

L'enciclica a quattro mani: "La fede non è arrogante"

È il giorno dei papi. Francesco rende nota l'enciclica scritta a quattro mani con Benedetto XVI. I due pontefici, al mattino, partecipano assieme nella cerimonia in cui Bergoglio consacra il Vaticano a san Michele, l'arcangelo armato di spada in lotta con il diavolo, e san Giuseppe, il padre putativo di Gesù patrono della Chiesa. E infine la firma sui decreti di canonizzazione di due loro predecessori che la devozione popolare aveva già fatto santi da tempo: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II.
Questo incrocio di esistenze, di storie presenti e passate, è una rappresentazione visiva dell'enciclica sulla fede. Si capisce molto di questo testo guardando i pontefici - in carica ed emerito - che si abbracciano, o ricordando le gesta dei prossimi santi. Nella Lumen fidei Francesco scrive che la fede è un fatto vivo, pubblico, un faro che «illumina tutta l'esistenza» e non soltanto alcuni brandelli. Non è un «salto nel vuoto spinto da un sentimento cieco» né «una consolazione privata» e neppure «un rifugio per gente senza coraggio», ma «un bene per tutti, un bene comune», capace di «costruire una nuova solidità». C'è moltissimo Ratzinger nell'enciclica, che suggella l'Anno della fede da lui voluto ma non portato a compimento. Si riconoscono la sua mano, il suo procedere, le citazioni, da Nietzsche a Guardini, da Wittgenstein a sant'Agostino. Riecheggia la riflessione sul rapporto tra fede e ragione, sulla fede come strumento di conoscenza (un capitolo s'intitola «Se non crederete non comprenderete») perché «la fede senza verità resta una bella fiaba». «La luce della fede può illuminare gli interrogativi del nostro tempo sulla verità». «Credere e vedere si intrecciano». «Chi crede, vede». Così si legge nell'enciclica. È l'opposto dell'idea comune secondo cui la fede è un'illusione, un rifugio intimo, se non l'inizio (o l'apogeo) dell'oscurantismo. La firma «Franciscus» in calce a un lavoro per larghissima parte altrui è un fatto epocale: il papa fa integralmente sua la riflessione del predecessore, mostra la piena continuità del magistero pontificio (la trasmissione della fede rappresenta uno dei punti centrali dell'enciclica) e professa ancora una volta quell'umiltà che lo accomuna al dimissionario. «La fede non è intransigente ma cresce nella convivenza. Il credente non è arrogante - scrive Francesco -; al contrario, la verità lo fa umile. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti».
Nella ricchezza di riferimenti biblici e culturali, l'enciclica non è un testo per iniziati, un discorso in «ecclesialese». È il racconto di due uomini, due papi, che sono stati afferrati da Cristo e per i quali Dio è vivo e presente. «La nostra cultura ha perso la percezione della presenza concreta di Dio - si legge -, pensiamo sia solo nell'al di là, incapace di agire nel mondo». Francesco e Benedetto fanno riscoprire il senso di parole quotidiane: fiducia, fedeltà, affidarsi, termini guardati con sospetto ma di cui c'è estremo bisogno perché «quando la fede viene meno, si rischia che anche i fondamenti del vivere vengano meno». Oppure: «Senza un amore affidabile nulla potrebbe tenere veramente uniti gli uomini» perché l'unico collante sarebbero «l'utilità, gli interessi, la paura». C'è un forte richiamo ai potenti: «L'autorità viene da Dio per essere al servizio del bene comune». C'è l'invito a riscoprire i sacramenti, in particolare il battesimo e l'eucaristia, e la preghiera. C'è un senso di unità che trascende la storia e restituisce dignità alla Chiesa: «La fede nasce da un incontro che accade nella storia e si trasmette per contatto, da persona a persona, in una catena ininterrotta di testimonianze. È impossibile credere da soli». E c'è l'imperativo alla speranza. Francesco lo spiega parlando dei sofferenti, ai quali «Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto» ma è «una presenza che accompagna». «Non facciamoci rubare la speranza», conclude Bergoglio prima di abbandonarsi a un inno alla Madonna alla quale chiede: «Aiuta la nostra fede».

Richiamandosi all'enciclica «Fides et ratio» di Giovanni Paolo II, Bergoglio afferma che «fede e ragione si rafforzano a vicenda». La fede «allarga gli orizzonti della ragione»


di Stefano Filippi


Nella famiglia «la fede illumina la città degli uomini».

Essa nasce «dall'unione stabile dell'uomo e della donna nel matrimonio, dal riconoscimento della differenza sessuale»

Il Papa esorta a non cedere alle «proposte illusorie degli idoli del mondo», a non farsi «rubare la speranza», vanificandola con soluzioni e proposte immediate che bloccano il cammino

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