Roma - Lo ha annunciato in Parlamento nel chiedere la fiducia ad aprile; lo ha ripetuto l'11 maggio all'Assemblea nazionale del Pd davanti a Matteo Renzi; ieri lo ha promesso anche agli imprenditori, riuniti a Roma per il summit annuale di Confindustria.
Per il premier Enrico Letta l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti è diventata una bandiera, un simbolo da riproporre in ogni occasione per dare il segno di un governo in sintonia con gli umori del Paese e che punta sul serio al cambiamento. «Abbiamo fatto una prima scelta simbolica, perché se dobbiamo chiedere sacrifici ai cittadini dobbiamo essere pronti a farne per primi noi: è già legge l'abolizione del doppio stipendio per quei parlamentari che vengono chiamati a servire il paese come ministri», spiega alla platea di Confindustria, di fronte al presidente Squinzi e a buona parte dei membri del suo governo (Alfano che prende appunti, Saccomanni che scambia opinioni con Abete, Zanonato che scatta foto col telefonino e le pubblica su Twitter), accorsi all'Auditorium di Roma per l'occasione. «Ma vogliamo continuare, con l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, la riduzione dei parlamentari, l'abolizione delle Province». E prima che qualcuno nel pubblico di imprenditori inizi a spazientirsi, avendo ascoltato simili ritornelli da ogni premier ad ogni assemblea, Letta precisa: «Sono temi che da troppo tempo vengono evocati ma non affrontati». E assicura: «La politica forse troppo tardi ha capito la lezione, ma ora deve applicare quello che ha capito».
Quando la applicherà, nei casi annunciati dal premier, è però da vedersi. Letta, nei giorni in cui il suo governo era ancora in formazione e attendeva il passaggio della fiducia, aveva fatto trapelare alla stampa di avere in mente una «mossa rivoluzionaria», in grado di parlare ai grillini e all'opinione pubblica: un proposta di abolizione dei cosiddetti «rimborsi elettorali» ai partiti, da varare al primo Consiglio dei ministri. Una proposta, spiegarono allora i giornali, ricalcata pari pari su quella già annunciata da Matteo Renzi, che di questo tema aveva fatto - contro Bersani e l'apparato Pd - uno dei suoi cavalli di battaglia alle primarie: via i soldi pubblici, e apertura ai contributi privati, incentivati da una forte defiscalizzazione. Superiore all'attuale, fissata al 19 per cento, ed estesa anche alle associazione no profit. Da allora, però, di Consigli dei ministri se ne sono riuniti svariati e della proposta non si è avuto ancora sentore.
Il premier, che è stato fino a poco tempo fa anche vice segretario del Pd, sa bene che nei partiti - in prima linea il suo - si guarda con terrore al taglio dei fondi pubblici. Già il loro dimezzamento, approvato nella scorsa legislatura, ha lasciato boccheggianti le forze politiche, che hanno affrontato i costi della campagna elettorale ma ora si possono dividere «solo» 91 milioni l'anno.
E il tesoriere Antonio Misiani, quando i parlamentari che fanno riferimento a Renzi hanno depositato ad inizio aprile la loro proposta di abolizione, la ha liquidata: «Quella proposta non rappresenta la posizione del Pd».
Quanto all'abolizione delle Province (alla cui proliferazione Letta, all'epoca sottosegretario di Prodi, non fu estraneo quando nel 2007 vennero create, con l'opposizione del ministro per gli Enti locali Lanzillotta ma l'appoggio silenzioso di Palazzo Chigi, quelle di Monza, Barletta e Fermo) si sa che nel Pd - come negli altri partiti - si fronteggiano posizioni opposte. «Vedrete, finirà tutto nel calderone della commissione per le Riforme, e chissà quando se ne riparlerà...», assicura un parlamentare Pd di lungo corso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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