RomaFra i tremila e passa emendamenti presentati al Senato alla legge di Stabilità, mescolato fra mozzarelle campane e vendita delle spiagge, c'è un emendamento che - erroneamente - è stato soprannominato web-tax, o «tassa Google». L'ha presentato Francesco Russo del Pd, ma l'ideatore è a Montecitorio: il presidente della commissione Bilancio, Francesco Boccia. Che, immaginando la possibilità che la manovra non possa essere ritoccata alla Camera, ha fatto presentare l'emendamento a Palazzo Madama.
«Da quando ho presentato la proposta di legge - commenta Boccia - mi sono già preso un articolone su Forbes, da titolo: Ecco l'uomo che vuole tassare il web. Ma non mi meraviglio. Se non mi sbaglio - aggiunge - la capitalizzazione di Borsa della Google è quasi pari a quella della Borsa italiana».
Il meccanismo pensato da Boccia è relativamente facile nell'elaborazione; quasi impossibile - al momento - nella pratica. Il ragionamento dell'unico articolo di legge è lineare. Chiunque vende prodotti online deve avere una partita Iva italiana. Un principio che vale per gli spazi pubblicitari offerti dai motori di ricerca (da qui il nomignolo «tassa Google»), ma che si estende anche agli inserzionisti.
Alla base delle considerazioni di Boccia, una constatazione: «I proventi dell'economia digitale escono dall'Italia e non tornano». E per essere più esplicito cita alcuni casi. «Il più eclatante di tutti è il poker online. Stiamo parlando di un giro d'affari da un miliardo di euro al mese che esce dall'Italia e che viaggia su piattaforme tecnologiche estere. E, quindi, non rientra nel Paese sottoforma di tasse».
Un altro caso è Amazon. La sua sede europea - ricorda il presidente della commissione Bilancio di Montecitorio - è in Lussemburgo. «Lì correttamente paga l'Iva. Con un particolare. L'Iva in Lussemburgo è al 15%. In Italia, un'azienda che offre gli stessi servizi di Amazon paga un'Iva al 22%».
L'obbiettivo - spiega la relazione illustrativa alla proposta di legge, ora trasformata in emendamento alla legge di Stabilità - «è quella di non consentire che società estere non paghino le tasse nei paesi dove operano, bensì in quelli dove hanno la sede legale con un'imposizione più bassa dei Paesi Ue».
Il fenomeno è macroscopico - spiega Boccia - se viene preso in considerazione il budget pubblicitario delle multinazionali. Non è più rapportato al singolo Paese, ma centralizzato. In tal modo a soffrirne sono soprattutto settori come quelli dell'editoria e della pubblicistica in generale. «La farmacia che si fa pubblicità su Google Map, paga Google. Ma Google non paga le tasse in Italia». E, secondo il presidente della commissione Bilancio della Camera, «il crollo della raccolta pubblicitaria è certamente determinato dalla crisi, ma è ampliato da questo fenomeno», che erode risorse ai concessionari tradizionali di pubblicità.
Contro la posizione di Boccia s'è schierata anche la Camera di Commercio Italo-americana, sostenendo che la web-tax danneggia la competitività nazionale. E Stefano Parisi, presidente della Confindustria digitale, sostiene che piuttosto di introdurre una nuova tassa, meglio sarebbe negoziare condizioni fiscali comuni; insomma, chiede una riduzione dell'Iva.
È dal Millennium Round di Seattle del 1999 che l'Organizzazione mondiale del commercio (WTO) s'interroga sul fenomeno. E, regolarmente, la fiscalità e la proprietà intellettuale sono gli argomenti su cui naufragano i vertici commerciali.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.