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L'incubo del premier: primarie e legge elettorale

Le divisioni con Renzi sul Porcellum sono un'incognita per il patto sulla tenuta del governo

L'incubo del premier: primarie e legge elettorale

Roma - Ora, e a Palazzo Chigi lo sanno bene, la vita del governo «dipende solo dal Pd», come dice la lettiana doc Paola De Micheli. E dal suo nuovo corso, con Matteo Renzi segretario. Il quale ieri sera, a Che Tempo che fa, forte dei risultati del voto tra gli iscritti (lui è al 46%, Cuperlo al 38,6%, «la prima volta che D'Alema perde un congresso», scherza) si è mostrato molto leale, ma anche molto esigente: «Non tramo contro Enrico Letta. Lui dice che gli servono 18 mesi per fare delle cose? Bene, io sono pronto a fare un passo indietro rispetto alle mie ambizioni e dirgli: ottimo, falle». E giù l'elenco, che rischia di diventare la «lista della spesa» obbligatoria per il governo nei prossimi mesi: abolire le province, cancellare il Senato, riformare il regionalismo, cambiare la legge elettorale, ristrutturare il codice del lavoro. «Io e Letta andremo d'accordo», assicura. Ma aggiunge: «Il programma lo facciamo insieme». Ora per Letta di capire come funzionerà la nuova convivenza, come si schiererà il Pd renziano e se sarà possibile firmare con il sindaco di Firenze quel «patto» di non belligeranza, con la data del 2015, che molti (per primo Angelino Alfano, che chiede la certezza che il governo duri) vogliono che Letta proponga. Un patto che dovrebbe comprendere, oltre alla durata del governo, e quindi all'impegno del Pd a non tendergli trappole e a non dare spallate nei prossimi mesi, anche un mini-pacchetto di riforme che il governo dovrà varare, tramontata per necessità l'ennesima «Grande Riforma» annunciata, visto che i numeri si sono volatilizzati. In primis, ovviamente, la legge elettorale, e già qui cominciano i dolori. Perché sul tema le necessità degli alfaniani (un forte proporzionale che consenta ad una forza centrista di sopravvivere) e le intenzioni di Renzi, che al proporzionale ha dichiarato guerra, divergono. È già in corso il pressing renziano per riportare alla Camera la riforma del Porcellum, per ora impantanata al Senato, e per tentare il blitz bipolarista a Montecitorio, foriero di problemi non da poco per la maggioranza. Prima ancora, però, c'è da portare a casa la legge di stabilità, sulla quale la nuova Forza Italia minaccia il voto contrario, rendendo imprescindibile la compattezza del Pd nel voto. Tra i renziani, però, si moltiplicano le voci che chiedono un chiarimento, argomentando che dopo la scissione nel Pdl e quella in Scelta Civica la maggioranza è radicalmente ristrutturata («Enrico la ha deberlusconizzata», rivendicano i supporter del premier), e dunque anche il Pd deve ripensare il proprio ruolo. D'altronde lo ammettono anche i lettiani: «Dopo quello che è accaduto - dice la De Micheli - la responsabilità del nostro partito verso il governo aumenta enormemente». E a Palazzo Chigi non escludono un «passaggio parlamentare», magari dopo la legge di stabilità, per sancire la nuova situazione (e magari anche il futuro, probabile rimpasto). E sui numeri parlamentari affettano sicurezza: «Avete visto come è andato nel gruppo Pd il voto sul componente dell'Authority per la Privacy? Ha vinto largamente il candidato di Letta, e Renzi è stato sconfitto. I parlamentari non li controlla lui, tranquilli». In questo clima da lunghi coltelli, resta da vedere quanto convenga a Renzi firmare il «patto» e tenere in piedi il governo per 18 mesi.

Ben sapendo che questo servirebbe a regalare a Letta tempo per rafforzare l'azione di governo, incassare finalmente qualche risultato, magari agganciare un soffio di ripresa e poi sfidarlo alle primarie per la premiership.

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