L'inferno fiscale da cui Google cerca di fuggire

L'inferno fiscale da cui Google cerca di fuggire

di Nei giorni scorsi sono finiti sulla graticola Dolce&Gabbana; oggi è la volta di Google. In un'Italia che va sprofondando in una grave crisi, dove le piccole e medie imprese chiudono e licenziano a causa di una imposizione fiscale oppressiva, non si trova nulla di meglio da fare che puntare il dito contro quei gruppi industriali che, per chi pensa che «le tasse siano bellissime», non contribuirebbero a sufficienza. Questi interpreti del senso comune e degli umori populisti ci ripetono di continuo che se tutti pagassero di più, ognuno di noi verserebbe di meno, e questo nonostante la storia degli ultimi decenni insegni proprio l'opposto: dal momento che la percentuale del Pil incamerata dallo Stato è cresciuta costantemente e assieme ad essa la voracità degli apparati pubblici parassitari. Nei riguardi di Google l'accusa è particolarmente contestabile, poiché il colosso americano si avvale del mercato comune europeo (una conquista di alcuni decenni fa) e - al tempo stesso - delle norme tributarie irlandesi, assai meno oppressive di quelle italiane o tedesche. La multinazionale statunitense ha collocato in Irlanda il proprio quartier generale del Vecchio Continente e quindi versa a Dublino la maggior parte dei tributi connessi ai profitti ottenuti in quest'area. Quanti accusano Google sembrano non capire che oggi l'economia è globale e che esiste un solo modo per attrarre risorse e aziende: costare poco e offrire buoni servizi. In fondo, sempre più oggi vale per gli Stati quello che vale per le imprese sul mercato, perché ormai anche gli apparati pubblici hanno perso ogni possibilità di sbagliare impunemente. Bisogna allora che i governanti riducano le aliquote, semplifichino le normative, taglino le spese, migliorino la qualità di quanto offrono. Per quale motivo una società come Google dovrebbe scegliere l'Italia invece che l'Irlanda, se noi continuiamo a essere un «inferno fiscale» con servizi pubblici scadenti? Per giunta, Google sostiene di agire seguendo le norme. È vero che in vari ordinamenti, tra cui quello italiano e quello comunitario, è stata elaborata la dottrina del cosiddetto «abuso del diritto», secondo la quale andrebbe condannato anche chi - nella propria attività - compie ad esempio talune scelte strategiche al fine di pagare meno nel rispetto della legislazione. Ma si tratta di una dottrina assai contestata e contestabile, poiché non si può al tempo stesso celebrare il sistema normativo quale ultimo orizzonte (ignorando in particolare ogni diritto naturale e prepolitico, e di conseguenza ogni ipotesi di resistenza di fronte all'oppressione fiscale), e poi sostenere che perfino chi rispetta la legge e agisce «limitando i danni» andrebbe condannato. Di fronte a queste polemiche, la reazione di Google è stata ferma e lineare, poiché i portavoce della società americana hanno ricordato di avere rispettato le regole tributarie e di seguito hanno aggiunto: «Se ai politici non piacciono queste leggi, loro hanno il potere di cambiarle».

I nostri governanti hanno però un solo modo per far crescere l'economia e anche per aumentare le entrate: affrancarci dall'inferno in cui ci hanno cacciati. Non sembra molto ragionevole, dunque, essere troppo ottimisti.

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