diGrande scalpore ha fatto l'ultimo rapporto Unioncamere e Ministero del Lavoro nella parte relativa alla previsione di assunzioni del terzo trimestre 2012: tutte le agenzie di stampa provocano sul fatto che solo due assunzioni su dieci avvengono tramite contratto a tempo indeterminato. Tuttavia, i dati pubblicati da Unioncamere andrebbero analizzati con maggiore attenzione.
Anzitutto colpisce il fatto che i posti di lavoro messi a disposizione dalle imprese si siano ridotti di 69mila rispetto al secondo trimestre 2012, con un saldo negativo tra entrate e uscite complessivamente previste pari a 50.130 dipendenti. Più contenuta è, in apparenza, la riduzione rispetto all'analogo trimestre del 2011 (meno 3.800), peraltro con un incremento rilevante di stagionali e un decremento di quasi 19 mila «non stagionali» pari a circa il 18%.
Pertanto, il vero problema, che emerge ancora una volta da questa rilevazione, è la continua riduzione dei posti di lavoro tout court unito al costante aumento della disoccupazione. Questo fenomeno, purtroppo, è in atto non solo perché molte delle situazioni storicamente improduttive stanno rapidamente venendo a galla, ma anche perché la crisi sta provocando la chiusura di molte aziende, soffocate dalla stretta creditizia e la paralisi di altre.
In questo contesto il fatto che venga rilevato un incremento percentuale di assunti a termine non deve essere motivo di particolari timori. È del tutto normale, infatti, che all'interno di una crisi che propone scenari quanto mai incerti e soprattutto una riduzione consistente di assunzioni, cresca la percentuale di contratti a termine, in particolare in fase di prima assunzione. Peraltro, è sempre più evidente che una gran parte dei contratti di lavoro, inclusi quelli destinati a trasformarsi in contratti stabili, nascono a tempo determinato. La maggior parte delle aziende, prima di decidere di stabilizzare i propri rapporti di lavoro, ha infatti la necessità di passare attraverso una fase transitoria. Il problema riguarda da un lato la modalità di gestione di questa flessibilità, dall'altro il fatto che non intervengano elementi tesi ad accentuare impropriamente tale fenomeno anziché contribuire eventualmente a ridurne l'impatto.
Per quanto riguarda il primo punto diventa sempre più urgente concentrare le aziende sull'utilizzo di quei contratti, come la somministrazione tramite Agenzie per il Lavoro, in grado di coniugare il loro fabbisogno crescente di flessibilità con il miglior livello di sicurezza, di tutela e di stabilità per il lavoratore. Oggi, infatti, non solo contratti a progetto, partite Iva, associazioni in partecipazione non rappresentano soluzioni percorribili, ma anche il mero contratto a termine rischia di lasciare il lavoratore in balia di aziende utilizzatrici orientate a tutto tranne che alla sua crescita e al suo sviluppo personale e professionale.
Per quanto riguarda il secondo punto è prioritario rendere più flessibile in uscita il contratto a tempo indeterminato, non confondendo l'impegno reciproco tra azienda e lavoratore con l'inamovibilità, e stimolare contratti come l'apprendistato in grado di coniugare l'impegno nel tempo e un certo grado di flessibilità. Solo così diventa possibile restituire centralità ai contratti stabili ed evitare la proliferazione di forme di flessibilità improprie e scarsamente adeguate alle esigenze di imprese e lavoratori.
Questi erano in realtà alcuni dei driver che hanno dato l'abbrivio all'ultima riforma e che solo in parte sono stati recepiti dall'ultimo testo di legge. La mancanza di coraggio di questo governo non ha infatti permesso di dare un messaggio forte e inequivocabile in questa direzione.
* Amministratore delegato di Gi Group
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