«Sinnerman where you gonna run to?» Ce la immaginavamo con alle spalle la colonna sonora di Nina Simone la fuga di Fabrizio Corona, «peccatore dove stai correndo?». Nascosto nella stiva di una nave, su un volo aereo, seduto in fondo, nell'ultimo posto con in tasca (...)
(...) un passaporto falso, appiattito nel bagagliaio di un'auto, stordito sul bancone di un bar caraibico, sudato di paura e tequila, in una cantina della periferia di Milano o lontano, lontanissimo, o vicino, vicinissimo ma comunque irraggiungibile. Invece è finito tutto dopo quattro giorni con un gran casino per un sacco di gente e soprattutto per lui, in una metropolitana di Lisbona, senza mitra, senza la resistenza ostinata di Scarface, senza la scena madre che a lui è sempre tanto piaciuta, senza nemmeno l'abbigliamento adatto all'ultima grande resa: niente doppiopetto cachi ma il cappuccio di una felpa sbrindellata a fargli da debole scudo. E come ci si veste poi per non tornare? Va bene, basta: eccomi qua. Gli si è stretta l'aria addosso. Gli si è arrampicato tutto attorno al collo. Lui e i poliziotti. Sono io, è finita, prendetemi. Le televisioni hanno passato la giornata di ieri a lanciare interminabili servizi sull'ex agente di fotografi (diventato inspiegabilmente e improvvisamente manager) e a raccontare, con malcelata, insopportabile soddisfazione: «Quando si è consegnato alle autorità portoghesi piangeva come un bambino». E a parte il fatto che «come un bambino» è l'unico modo di piangere, Fabrizio, da sotto quella felpa stava consegnando alla polizia sette anni, dieci mesi e 17 giorni della sua vita. I prossimi. Ed è pazzesco, assurdo. Che Corona piaccia o no.
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Fucilieri a pagina 17
di Valeria Braghieri
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