L'Sos dei nostri pescatori: "In mare serve la scorta Ora siamo chiusi in cella"

Parla uno dei comandanti: "Eravamo in acque internazionali. Lo Stato ci protegga con i militari oppure ci offra un lavoro". ESCLUSIVA La telefonata con i pescatori

L'Sos dei nostri pescatori: "In mare serve la scorta Ora siamo chiusi in cella"

Il telefono squilla a lungo e alla fine risponde il comandante Domenico Asaro, in galera a Bengasi, dopo che il suo peschereccio «Giulia PG» è stato intercettato dai libici in acque internazionali a raffiche di mitra. «Siamo in galera, ma stiamo bene. Non ci trattano male, anche se abbiamo dormito in cella senza materassi» spiega a il Giornale, con voce calma ed accento siciliano. «Per noi le acque territoriali sono a 12 miglia, ma i libici ne aggiungono altre 62. Ci hanno sparato addosso (a 40 miglia dalla costa nda) cinque, sei volte. Sullo scafo abbiamo almeno cinque buchi di proiettili, ma per fortuna siamo tutti incolumi. Nessuno è ferito» racconta Asaro, un veterano del mare, descrivendo l'abbordaggio dei libici di domenica. «Anche l'latro peschereccio, il Daniela, ha dei fori sullo scafo» sottolinea il comandante. Poi si lascia andare ad un'amara considerazione: «La nostra bandiera conta poco. Siamo italiani e non ci sono navi militari ad assisterci. In queste situazioni rimaniamo in balia delle onde».

Asaro ribadisce che «o ci danno la scorta dei militari, oppure un posto statale e cambiamo mestiere. A casa abbiamo una famiglia e dei figli che dobbiamo far sopravvivere». Il capitano spiega che i pescatori sono stati «interrogati ieri sera (domenica nda) e oggi (lunedì nda), ma non ci hanno maltrattato».

Le imbarcazioni sequestrate sono state scortare nel porto libico e gli equipaggi subito trasferiti in carcere. Per i connazionali si è mobilitato il console a Bengasi, Giulio De Sanctis, che ha cercato di rendere più umana la detenzione portando generi di conforto. L'ultimo appello di Asaro, prima di chiudere la telefonata dal carcere di Bengasi, è di «far valere la nostra bandiera, anche se sfortuna vuole che in questo momento non ci sia governo in Libia», dopo le dimissioni del primo ministro incaricato.
Dalla Sicilia il vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero, ha lanciato una giusta provocazione: «Affinché il problema si affronti seriamente è necessario che ci scappi il morto?».

In questo momento non sono gli unici i due pescherecci siciliani scortati armi in pugno a Bengasi. Altri due, sempre di Mazara del Vallo, sono sotto sequestro in Egitto e Tunisia. L'Artemide è bloccato ad Alessandria dal 3 ottobre dopo essere stato intercettato 25 miglia al largo dai militari egiziani, sempre al di fuori delle acque territoriali comunemente riconosciute nelle 12 miglia. «Sappiamo che l'ambasciatore (al Cairo nda) Pacifico e la diplomazia italiana stanno lavorando. Attendiamo di ora in ora la notizia del rilascio» ha dichiarato l'armatore, Piero Bono.
In Tunisia, invece, il peschereccio Twenty Four, sempre di Mazara, è bloccato a Sfax dal 14 settembre. La faccenda è diventata drammatica il 3 ottobre quando uno dei marinai fermati, Alessandro Santo Novara, viene ricoverato in gravi condizioni per un infarto.

L'aspetto assurdo è che l'Italia ha bombardato la Libia per dar una mano ai ribelli anti Gheddafi, che adesso sparano e sequestrano i nostri pescherecci in alto mare. Non solo: abbiamo appoggiato la rivolta tunisina e alla fine anche il cambio della guardia in Egitto in nome della primavera araba e sta diventando autunno, se non inverno.
«La situazione rischia di degenerare. È urgente avviare una trattativa pur con una situazione politica in Libia e in Tunisia assai intricata. Occorre intavolare un negoziato serio.

Non possiamo fidarci del diritto internazionale e farci forti dei limiti da esso imposti per poi incappare nelle legislazioni particolari che violano la nostra libertà di pesca e di movimento nel Mediterraneo» sostiene monsignor Mogavero. In pratica oltre al danno si rischia la beffa. Giovanni Tumbiolo, presidente del Distretto produttivo della pesca di Mazara del Vallo, dichiara a Il Giornale: «Non si campa più. Siamo di fronte ad una guerra del pesce». Secondo Tumbiolo baserebbe applicare veramente l'accordo firmato in Libia il 21 gennaio per chiudere le «ostilità». Nel frattempo «va incrementata la vigilanza nel canale di Sicilia da parte delle autorità italiane. Se ci fosse la volontà politica dovremmo mandare la marina militare a scortare i pescherecci».

Poi getta acqua sul fuoco: «L'uso della forza non è la strada migliore, ma non è la prima volta che libici o tunisini sparano per fermare i nostri pescatori. La stessa Unione europea dovrebbe garantirne l'incolumità».

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