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L'urlo del genitore non ripaga tutti i danni dei figli di papà

L'urlo del genitore non ripaga tutti i danni dei figli di papà

N on serve nemmeno scomodare ogni volta Pasolini, un vero democratico pop che stava con i popolani in divisa. La contestazione a spese di papà è un classico della storia italiana. A partire dai feroci anni Settanta, nelle violenze di piazza c'è immancabilmente la presenza scamiciata dei ragazzi di buona famiglia, che lanciano sanpietrini e sfasciano le vetrine del centro con le spalle coperte. La tradizione vuole che poi i genitori passino a sistemare i conti, non prima di aver buttato giù dal letto l'avvocato di prestigio per tirare fuori al più presto la povera creatura.
Adesso il figlio di papà si ritrova improvvisamente tra i piedi un papà ribelle. Con il suo sfogo sul Giornale della domenica, lo chef cuneese Giorgio Chiesa rompe la regola chic e perbenista della famiglia che corre a salvare il pupo. Suo figlio, fermato e rilasciato dopo la guerra di Roma, si ritrova in un gioco a ruoli invertiti che fa scalpore. Implacabile la contestazione. «Dovevano tenerlo dentro di più, senza una punizione gli tolgono anche il senso di colpa». «È tutto tronfio per la vittoria, mi ha detto hai visto, il Gip mi ha mandato a casa, la lotta continua». «Mio figlio studia scienze politiche a Roma, mi contesta, fa il comunista, ma abita a spese mie una casa di Monte Mario, mica di Centocelle». «Non possiamo fare di questi ragazzi degli eroi: con il garantismo familiare non li aiutiamo a crescere».
Mentre ci sono giornali che titolano «Giù le mani dai ragazzi», il papà del figlio di papà si rammarica per l'indulgenza. Certo manifesta un dolore profondo, che qualunque padre può facilmente comprendere. Eppure questa fatica non gli impedisce di sfasciare lo schema collaudato, visto in tutte le epoche, il figlio che spacca e i genitori che corrono a proteggerlo.
Ci sono famiglie che difendono i piccoli Che Guevara perché li hanno difesi sempre, a prescindere, sin da quando picchiavano l'amico sulla spiaggia per rubargli la merenda. Ci sono famiglie che li difendono perché devono difendere se stesse, il proprio buon nome, la propria rispettabilità sociale. Ci sono famiglie che li difendono per manifesta impotenza, le ho provate tutte, non riusciamo neppure più a parlarci, ma è sempre mio figlio, che devo fare, devo lasciarlo in galera? E poi ci sono famiglie che li difendono perché in fondo li condividono, perché trent'anni prima in quella piazza c'erano loro, anche se adesso vestono firmato, scrivono editoriali e dirigono banche, ma insomma, difendere i ragazzi d'oggi è difendere i ragazzi di allora, così che il senso del pudore cinicamente calpestato in qualche modo non si rifaccia vivo.
Certo il legame tra Chiesa senior e Chiesa junior deve avere molte criticità. Il padre non nasconde d'essere uno sconfitto. Ma almeno non si dà per vinto. Anche se ha sbagliato qualcosa, non necessariamente l'erede deve avere tutti i lasciapassare e tutte le giustificazioni per devastare il mondo. Un conto è manifestare, un conto è giocare alla guerra.
Molti rimproverano il genitore di non aver sbattuto il ragazzo a lavare i piatti nel retrocucina del suo ristorante. Altri lo esortano quanto meno a tagliargli i viveri, evitando di pagare la bella casa a Monte Mario. Si può fare.

Ma Chiesa ha fatto di più: ha dato un taglio netto, senza se e senza ma, alla tradizione italiana della comprensione e delle carezze. Nella nostra storia sarebbe servito qualche padre in più di questo genere. Abbiamo subìto troppe rivoluzioni finte dai simpatici figli di mamma. Papà ha pagato i danni e l'avvocato. Noi abbiamo pagato il caos.

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