Cronache

Il made in Italy fa gola e i Versace dicono sì alle avances americane

Ceduto il 20% a Blackstone. Il timone resta a Donatella e Santo Stavolta non è una fuga, ma un passo per crescere negli Usa

Il made in Italy fa gola e i Versace dicono sì  alle avances americane

Dopo un corteggiamento durato mesi, alla fine Versace ha detto sì a Blackstone: sarà il colosso americano ad accompagnare la griffe sui mercati internazionali, verso il traguardo della Borsa. Lo shopping straniero in Italia continua a pieno ritmo, dunque: il fondo di private equity, tra i più potenti al mondo, entrerà nella maison della Medusa con una partecipazione del 20%, iniettando nuove risorse per 150 milioni di euro attraverso un aumento di capitale e acquistando 60 milioni in azioni dalla holding di famiglia. Che manterrà comunque il controllo: Blackstone avrà un posto nel cda ma gli eredi Versace continueranno ad avere ruoli strategici. Donatella, sorella del fondatore Gianni ucciso nella sua villa a Miami nel 1997, è direttore creativo e Santo è presidente, mentre Allegra, figlia di Donatella, controlla il 50% della società e siede in cda. «Sono molto onorata di lavorare con Blackstone - commenta a caldo Donatella - e con il suo ad Steven Schwarzman, che condivide con la famiglia la stessa visione di sviluppo di Versace».

Nessun addio, dunque, a differenza dei tanti marchi del made in Italy passati definitivamente sotto il controllo straniero: e qui l'elenco rischia di assomigliare alla storia infinita. Solo negli ultimi mesi abbiamo visto Krizia finire in mano ai cinesi, Poltrona Frau alla statunitense Haworth e Loro Piana al «solito» Lvmh. Aggiungendosi così agli altri gioielli di famiglia - Fendi, Pucci, Bulgari - finiti nel forziere del colosso francese del lusso, in pendant con quelli controllati dal rivale Kering (ex Ppr), da Gucci a Sergio Rossi e Richard Ginori. Le fabbriche, per fortuna, restano nei nostri distretti, i migliori, come i francesi sanno bene.

D'altronde, in Italia non esiste un polo finanziario-industriale capace di fare operazioni analoghe ai francesi nel campo della moda e del lusso: ci hanno provato in tanti, a partire dal gruppo Marzotto, che è arrivato a quotare in Borsa Valentino, poi ceduto prima al fondo Permira, poi all'emiro del Qatar. Per non parlare dei fallimenti clamorosi, da Mariella Burani all'It Holding di Tonino Perna, crollati sotto il peso di acquisizioni sbagliate e debiti insostenibili.

I grandi della moda italiana restano così inesorabilmente gruppi di famiglia, seppure capaci di attrarre investitori in Borsa, come Prada, Tod's, Ferragamo, Brunello Cucinelli e l'ultima matricola, Moncler. Per non parlare dell'«aquila solitaria», Giorgio Armani; ogni anno si intrecciano le voci di corteggiamenti da parte di questo o quel colosso francese- L'Oréal compresa -, ma Re Giorgio è sempre rimasto indifferente alle proposte, così come al richiamo della Borsa.

Che invece è l'obiettivo finale del gruppo Versace. Grazie alla cessione, che valorizza la griffe a circa un miliardo di euro, la Medusa punta anzitutto ad aumentare la propria presenza negli Stati Uniti, dove il marchio è amatissimo, e sui mercati emergenti, facendo leva sulla presenza globale di Blackstone. I capitali freschi serviranno così «ad accelerare la crescita e far diventare Versace, che già oggi viaggia sui 500 milioni di fatturato, di un'altra cilindrata», spiega l'ad Gian Giacomo Ferraris, l'artefice del rilancio del gruppo. La maison intende investire nella rete di negozi, con l'obiettivo di portare a 200 da 137 i punti vendita di proprietà diretta- molto più redditizi - nel giro di tre anni, sviluppare il portafoglio di marchi, a partire dalla licenza Versus, da poco ricomprata, e dare slancio al business vincente, l'e-commerce.

Infine, fra 3 o 5 anni, la quotazione.

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