È il possesso di una visione, di un'idea dell'Italia che vorrebbe («l'Italia delle opportunità, delle possibilità»), ciò che ha consentito a Matteo Renzi di presentare in un'ora e dieci minuti al Senato il programma di un governo dalle ambizioni innovative. Un discorso a braccio, tenuto con gesticolare disinvolto, a volte eccessivo, le pause dosate e l'uso di un'aggettivazione - «irreversibile», «indifferibile» - che denota decisionismo e consapevolezza ultimativa di ciò che si accinge a fare. Un discorso svolto al Senato, ma rivolto al Paese: «Chiediamo la fiducia a questo Senato, ci impegniamo a meritare la fiducia come governo perché pensiamo che l'Italia abbia la necessità urgente e indifferibile di recuperare la fiducia per uscire dalla situazione di crisi nella quale ci troviamo». E pazienza se la politica e il Palazzo devono cambiare da subito. A cominciare dallo stesso Senato: «Spero di essere l'ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest'aula». In questo «datemi la fiducia» e poi vi manderò a casa c'è tutta la provocatorietà e il paradosso di questo governo. Ovvero, la politica che prova ad autoriformarsi. Può farlo - forse, molto forse - solo un politico che non viene dal Palazzo (anche se ci è arrivato attraverso una manovra di palazzo e non con una legittimazione elettorale).
Quello di Renzi è stato anche il discorso di uno che si compiace di sé. A tratti sul filo della strafottenza (le mani in tasca), che si manifesta nella dichiarazione di alterità rispetto all'uditorio («Non ho l'età per sedere nel Senato della Repubblica»), forte dell'esperienza di sindaco, cioè di una politica vissuta sul campo, a contatto con i problemi della gente («Chi ha incontrato gli insegnanti, chi ha dato la mano ai cassintegrati, chi è entrato nelle fabbriche...»). Io non sono uno di voi, ha voluto dire il premier incaricato, ma uno della società civile. Uno del popolo più che dei salotti e dei poteri forti: «Se avessimo prestato ai mercati rionali lo stesso ascolto concesso ai mercati finanziari ci saremmo accorti dell'esigenza di semplicità». La visione però non va disgiunta dall'operatività: «Abbiamo il gusto e il piacere di provare a fare sogni più grandi di quelli che abbiamo fatto finora. E, contemporaneamente, di accompagnarli con una concretezza puntuale e precisa». E così, dopo la premessa sull'edilizia scolastica, una sorta di test della fattività del nuovo governo, ecco la puntigliosa elencazione dei provvedimenti. A partire dallo «sblocco to-ta-le, non parziale, ma to-ta-le dei debiti della Pubblica amministrazione». Poi il sostegno alle piccole e medie imprese, la riduzione del cuneo fiscale, il piano per il lavoro.
La consapevolezza ultimativa del proprio tentativo è un altro dei punti di forza di Renzi. E così il discorso è cosparso del senso del rischio, della percezione dell'«o la va o la spacca», del tempo degli alibi finiti. Ma siccome l'autostima abbonda e, insieme alla famosa «ambizione smisurata», per i primi tempi può persino essere una buona compagna, il neo premier ha ammesso che, mentre siamo abituati a un coro di «persone che ci dicono che non si può fare, che c'è un blocco, che il mutuo le banche non lo danno... io credo che, se perderemo, non ci saranno alibi. E sarà soltanto colpa mia».
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