Sono le 16.43 quando l’Ansa batte la notizia: Bossi si è dimesso. Ma non era vero. Non ancora. Dentro al fortino di via Bellerio, il consiglio federale aveva appena finito di esaminare la sostituzione del tesoriere Francesco Belsito, seppellito dalle carte di tre procure, con Stefano Stefani, e la formazione del nuovo comitato amministrativo. Pochi minuti, poi il capo spiazza tutti: «Me ne vado per il bene del movimento e della mia famiglia». Nessuno se lo aspettava. Gli dicono di non farlo, così è troppo. Fuori, negli stessi minuti, c’è una bufera di fango, le agenzie parlano di assegni a Bossi e a Calderoli, di denaro in nero che dal tesoriere sarebbe arrivato alla famiglia del Senatùr. Ma non è sull’ultimora che Bossi decide, come in molti sospettano.
Aveva già deciso. «E ci aveva presi pure tutti per il naso» commentano in molti. Sì, perché la sera prima l’Umberto era stato fino alle due del mattino a casa sua, a Gemonio, con venti parlamentari fedelissimi. Erano andati là per stringerglisi intorno nel momento peggiore della Lega e del suo capo, e per capire che cosa aspettarsi dal consiglio federale dell’indomani. Atmosfera surreale, perché il Senatùr si è mostrato lucido e persino rilassato. Dimettermi io? Figurarsi. E invece il giorno dopo, prima di entrare ha chiamato Angelo Alessandri, il presidente federale del partito: «Devi dimetterti, prendo il tuo posto». Poi ha telefonato all’Ansa, dettando quel «Bossi si è dimesso» che ha cambiato la storia della giornata e del Carroccio. Dimissioni irrevocabili, dice. Il fatto è che di quel crescendo di accuse, Bossi ha deciso di tenere conto. Non crede a tutto, non fosse altro che perché questo Belsito divenuto a un tratto Belzebù i magistrati non l’hanno ancora arrestato, e non è neppure parlamentare. E però dicono i suoi che il dubbio gli è venuto: che la leggerezza si sia mischiata con l’affarismo, che non tutto sia solo fango. E infatti dice che «chi sbaglia paga qualunque sia il cognome», prima di aggiungere: «Se ci sono traditori interni, gli taglierò la testa». Sguardi puntati su Roberto Maroni, la voce che da ministro dell’Interno avesse accesso a carte riservate nessuno la virgoletta, ma intanto è un veleno che gira. Lui, ieri si è commosso. Bossi è come un papà per tutti, non c’è guerra interna che tenga diranno i suoi dopo, «e non è lui che deve pagare per tutti».
Per Maroni è una vittoria ai punti. Sarà lui il perno del triumvirato. Con Roberto Calderoli, che la Lega l’ha messa su con Bobo e Umberto, e con Manuela Dal Lago, perché subito era stato indicato il segretario lumbard Giancarlo Giorgetti, ma poi il Veneto si è ribellato all’urlo di «non siamo solo una sedia per il vostro cappello», e allora è stata scelta lei, che è vicentina e maroniana, per quanto oppositrice del sindaco di Verona Flavio Tosi sulle questioni venete. Un altro punto che Maroni avrebbe voluto segnare era quello della tesoreria, con Silvana Comaroli al posto di Belsito. Ma anche lì, bisognava rispettare la quota veneta, e Stefani è di Vicenza. La Comaroli entra nel comitato direttivo con Roberto Simonetti, uomo di Roberto Cota, governatore del Piemonte. Quisquilie rispetto alla partita vera. Quando Bossi ufficializza il triumvirato, Bobo si alza e dice: «Umberto, non pensare di andare in vacanza. Se deciderai di ricandidarti come segretario al Consiglio federale in autunno io ti sosterrò».
Si abbracciano, perché se a inizio riunione c’era quello che all’unisono è stato definito un «clima di merda», dopo tre ore è la commozione il sentimento dominante, occhi lucidi e su tutto la consapevolezza che «qui non ci sono vincitori», perché la Lega rischia lo sfascio. Così, da qui in poi ognuno gioca la sua partita. Bossi ha dato la sua zampata, e se era l’ultima lascerà però il segno da qui ai prossimi tre mesi, in vista del congresso. Perché lo Statuto del partito dice che «il presidente federale, in caso di dimissioni del segretario federale, assume i poteri e le competenze del consiglio federale». Come a dire che Bossi continua a comandare, senza contare che potrà decidere liste e uso del simbolo. Politicamente però, il passo indietro è fatto. Bossi aspetta di capire se la bufera passa. Maroni può giocare le sue carte. Ieri non ha fatto mistero delle intenzioni: «Adesso faremo pulizia, andando a guardare i conti e aprendo tutti i cassetti».
Quando i militanti asserragliati in via Bellerio hanno visto la sua auto allontanarsi l’hanno fischiato, lanciando volantini con la sua foto con Bossi e sotto la scritta «Bacio di Giuda». Lui in realtà nell’auto non c’era, ma poco importa.
«Non vale, quelli li ha chiamati Calderoli per fare la claque a Bossi» dice un maroniano. Adesso, nel mirino ci sono, innanzi tutto, la vicepresidenza del senato di Rosi Mauro e il posto di consigliere regionale di Renzo Bossi. La guerra può continuare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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