Milano«Missione compiuta». Sono le 21.08 quando, dopo due giorni di silenzio, Roberto Maroni scende nella sala stampa milanese della Lega in via Bellerio. Sforbiciata ai capelli e cravatta verde, racconta che il candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli lo ha appena chiamato per riconoscere la vittoria. Arriva anche Umberto Bossi («Si accomodi, presidente») e siede a fianco del segretario lombardo Matteo Salvini, a benedire la più probabile linea dinastica. Una vittoria che Maroni dedica al capo della polizia Antonio Manganelli, ancora ricoverato. «È un amico, gli mando un abbraccio».
Oltre cinque imprevedibili punti di vantaggio e dopo Pier Luigi Bersani il centrodestra smacchia anche una sinistra lombarda ancora prigioniera della sua coazione a perdere. «Questo - dice Maroni per marcare il momento storico - era ciò che la Lega voleva, il nostro obiettivo strategico». Perché dopo Veneto e Piemonte, l'Alberto da Giussano ora si prende anche la Lombardia. E adesso la Grosse koalition tra le regioni del Nord, diventa un asse economico e politico con cui anche lo Stato centrale sarà costretto a mediare. A cominciare da quella proposta di tenere sul suolo settentrionale il 75 per cento delle tasse, il grimaldello leghista che ha aperto la cassaforte dei voti lombardi. A cominciare da quelli berlusconiani. Un flop la corsa solitaria di Gabriele Albertini che dopo aver rifiutato la candidatura del centrodestra è stato sedotto dalle sirene montiane e poi dolorosamente tradito da compagni di partito come Piero Ichino e Ilaria Borletti Buitoni che hanno chiesto agli elettori il voto disgiunto. Un Albertini che adesso dovrà mantenere la promessa fatta a Maroni di regalargli una fiammante Ferrari in caso di vittoria.
In pochi ci credevano, soprattutto dentro il Carroccio dove la fronda in quest'era post-Bossi s'ingrossava. E, invece, quello di Roberto Ernesto Maroni incoronato ieri nono governatore di Lombardia, è stato uno scacco matto in due mosse. Prima la ricomposizione della grande alleanza del centrodestra firmata con Silvio Berlusconi e fatta digerire con un po' di carota e tanta epurazione anche al celoduriamo leghista soprattutto veneto. Poi la decisione di rinunciare al manipolo di parlamentari da mandare a Roma, per puntare tutte le fiches proprio sulla Lombardia, il passo decisivo per completare il puzzle della macroregione del Nord, il sogno politico di Gianfranco Miglio. Non una secessione economica e tantomeno politica, ripetono ancora i leghisti, ma la voglia di «mettere Roma ladrona con le spalle al muro», di costringere i prossimi governi a fare i conti con la Questione settentrionale. Più seriamente del passato, a cominciare dalla base della piramide: le partite Iva corse in massa verso la protesta grillina e le aziende strangolate da una tassazione insostenibile che falcidia allo stesso tempo gli stipendi dei lavoratori.
Un salto mortale, quello di Maroni, che a urne chiuse ha magicamente trasformato una Lega vicina al tracollo dopo gli scandali dei diamanti e degli investimenti in Tanzania, nell'araba fenice che potrebbe diventare l'argine del Nord al grillismo dilagato soprattutto nel Veneto. Da dove arriva il primo atto di sottomissione dei riottosi serenissimi che con il governatore Luca Zaia mandano a dire ai lombardi che indipendentemente dal risultato elettorale, «Maroni non dovrebbe lasciare la segreteria, sarebbe un errore, ma deve porsi come figura di garanzia, soprattutto in Veneto dove la situazione è incandescente». Perché «se la sfida di Tosi era di compattare il partito in Veneto e non c'è riuscito, ora la sfida di Maroni è quella di trovare la strada per farlo».
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