L'ultima giornata da sindaco, con la fascia tricolore ad arringare (in due riprese, causa eccessiva affluenza) una platea di coppie fiorentine che festeggiavano le nozze d'oro per San Valentino. «È uno dei momenti più belli», dice Matteo Renzi dal podio di Palazzo Vecchio, riferendosi alla cerimonia che da cinque anni celebra, ma subito i media maliziosi rilanciano la frase come un commento - un po' indelicato - al raggiungimento del traguardo, la premiership. La giornata il premier in pectore la ha divisa tra due rebus: quello minore, il futuro di Firenze; quello più tosto, il suo futuro a Roma. Per questo nel pomeriggio lo ha raggiunto il ministro Graziano Delrio, da molti indicato come «il Letta (nel senso di Gianni, ndr) di Matteo», e forse futuro sottosegretario alla presidenza del Consiglio. «Attende le decisioni del capo dello Stato con molta serenità», ha raccontato Delrio, «intanto abbiamo ragionato su quel che serve al Paese». E anche su quel che serve a Renzi, ossia una squadra di governo che lui vorrebbe già pronta, nei profili essenziali, al momento della chiamata del Colle.
La partita fiorentina non è semplicissima, ed è molto urgente visto che la città da lunedì resterà priva del sindaco e pure del suo vice, Stefania Saccardi, promossa ad assessore regionale. Mentre il candidato di Renzi, Dario Nardella, è insidiato dal presidente del Consiglio comunale Eugenio Giani, antirenziano storico con cui ieri il sindaco uscente si è incontrato. La partita romana è ovviamente ancora più complessa. Incarico domani, consultazioni a Montecitorio domenica, il voto di fiducia a Renzi già martedì o mercoledì prossimo. Il tutto in un Parlamento praticamente nel caos, ingolfato di decreti che rischiano di scadere (Salva Roma, Milleproroghe, finanziamento pubblico) e sui quali non si può porre la fiducia, mancando il governo. Con la legge elettorale che slitta ancora. Sul futuro premier intanto piovono riconoscimenti: dal presidente della Commissione Ue Barroso all'amministrazione Obama. Matteo Renzi, «l'électrochoc de la gauche», titolava ieri Liberation. E che la sinistra italiana, Pd in primis, stia assistendo alla rapidissima scalata del suo segretario in uno stato di stupefazione è vero. Fino a poco tempo fa nell'ampio fronte anti-segretario si ragionava sul medio periodo in cui Renzi, grazie ad una successione di fatti per nulla casuali (a cominciare dalla sentenza della Corte Costituzionale sul Porcellum, che gli aveva tolto l'arma di pressione delle elezioni) sarebbe rimasto a «logorarsi» in quel del Nazareno mentre Letta governava, e il fenomeno si sarebbe smontato da solo. Ora il Pd si trova a fare i conti con tutt'altro scenario, e i nemici di ieri si sono improvvisamente trasformati in alleati di ferro. L'ala cuperliana si è allineata (molti sperano già in promozioni nel partito, dove la segreteria verrà rimaneggiata, e nel governo, e intanto si siglano intese in tutta Italia per le segreterie regionali), l'asse con i capigruppo nominati da Bersani, Speranza e Zanda, è saldissimo. Guglielmo Epifani annuncia un «documento programmatico» per il premier, ma è più che altro un modo per non essere accusati di resa senza condizioni. D'altronde, «dire no al segretario avrebbe voluto dire andare ad elezioni», ammette il bersaniano D'Attorre. L'asse con Franceschini e la sua AreaDem è altrettanto forte. Resta l'incognita Letta: la ferita è profonda, e il premier dimissionario resterà sull'Aventino a guardare se «il fenomeno» saprà fare meglio di lui. «Ma il Pd resta la nostra casa», dice uno dei suoi, il senatore Francesco Russo.
L'unico che si ritaglia il ruolo di anti-Renzi, quello che al momento assicura più visibilità, è il solito Pippo Civati. Che lo accusa nientemeno che di «omicidio preterintenzionale: se va avanti così, dopo il metodo Boffo ci sarà il metodo Renzi».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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