Un articolo «del tutto menzognero». È raro leggere parole di questo tenore in una sentenza per diffamazione, ma questo scrive il tribunale di Roma bocciando su tutta la linea, e se possibile anche di più, gli articoli di Nicola Biondo su Paolo Berlusconi, pubblicati dall'Unità nel settembre 2009. Il 14 settembre di quell'anno il giornalista aveva riempito una pagina intera del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, con il corredo di un sontuoso apparato fotografico, mettendo in fila una sfilza di presunte notizie sull'asse, immaginario, fra l'editore del Giornale, il generale Mario Mori e la criminalità organizzata. Un'insalata russa ad alta gradazione criminale: per l'Unità, che richiamava il pezzo, anzi i tre servizi, in prima pagina, Paolo Berlusconi e Giorgio Mori, presunto fratello del generale Mori, sarebbero stati soci nella Co.Ge, una società citata in termini per nulla elogiativi in un rapporto della Dia del 1999. Insomma, la fantomatica azienda dell'altrettanto fantomatico tandem Berlusconi-Mori sarebbe servita come trampolino di lancio dell'imprenditore milanese per sedersi, nientemeno, «al tavolino degli appalti» con esponenti di Cosa nostra. Un sillogismo sballato non in uno ma in tutti i suoi incredibili passaggi. Fuochi d'artificio senza alcun rapporto con la realtà.
Perché per il giudice non è vero che Paolo Berlusconi fosse socio di Co.Ge.. Non è vero nemmeno che Alberto Mori, fratello del generale, fosse socio di Co.Ge.. Già, perché fra un errore e una scivolata, l'Unità dava per scontato quel che scontato non era: si tratta di un caso di omonimia. Sì, perché il Giorgio Mori in questione, sbandierato dall'Unità con sbalorditiva superficialità come un trofeo di selvaggina al termine di una battuta di caccia, non aveva alcuna parentela con i due fratelli.
Dura la sentenza. Dura anche la condanna della prima sezione del Tribunale civile di Roma: l'Unità dovrà dare a Paolo Berlusconi 58mila euro a titolo di risarcimento.
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