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La moneta unica resta un pasticcio senza futuro

Il problema è che l’unione non c'è, né esistono i presupposti perché si costruisca subito

La moneta unica resta un pasticcio senza futuro

La discussione «euro sì, eu­ro no » è destinata a diventa­re incandescente. Ieri si è votato in Grecia e oggi sapremo, a bocce ferme, se la Ue perderà un pezzo. In ogni caso, alla fine del corrente mese, si terrà una riunio­ne europea durante la quale, an­che se non si deciderà niente, co­me è sempre accaduto negli ultimi tempi, si capirà se la valuta conti­nentale avrà vita lunga o breve.

Propendiamo per la seconda ipo­tesi, non perché siamo pessimisti o afflitti da gravi pregiudizi nei con­fronti dell’Europa. Il problema è che l’unione non c’è, né esistono i presupposti per­ché si costruisca rapidamente. Il nostro intento non è quello di rifi­larvi un discorso monetaristico, ma di fare alcune considerazioni a sfondo storico. Tanto per comin­ciare, l’euro è la sola moneta al mondo che non sia figlia di uno Sta­to. In mancanza del quale, manca anche una banca centrale autoriz­zata a stampare denaro a seconda delle necessità. È vero, ci siamo da­ti la Bce, le cui funzioni però sono burocratiche, di controllo generi­co. Nulla di più. Non potrebbe es­sere diversamente, visto che l’Eu­ropa è un club di Stati nazionali, ciascuno dei quali pedala per sé in materia fiscale, politica, giudizia­ria, economica. Ovvio, dove è assente uno Stato unitario, non può esserci un gover­no unitario, una legislazione buona per tutti.

E allora che cos’è l’eu­ro se non una forzatura, una finzione, un pasticcio senza futuro?Prima del 1861 l’Ita­lia era un’espressione geografica, non un Paese.C’erano le Due Sicilie,il Lombardo-Veneto, il Piemonte, lo Stato Pontificio, i ducati eccetera. Staterelli in quantità, cia­scuno dei quali aveva una propria moneta, un bilancio più o meno in ordine, un’eco­nomia più o meno robusta. A nessuno ven­ne in mente di imporre una moneta all’inte­ra penisola quale veicolo per giungere al­l’unità politica e istituzionale.

Avvenne l’esatto contrario, nonostante innumere­voli difficoltà, tra cui quella linguistica, da­to che la conoscenza dell’italiano era una faccenda d’élite. In Campania- per citare una regione - il 97percentodellapopolazioneparlavaabi­tualmenteindialetto. Altrovelapercentua­le­di coloro che erano linguisticamente ita­lianizzati era superiore, forse, ma non di molto. Nel Veneto la gente conversava in veneto, in Lombardia erano diffusissimi il milanese e parlate similari. E sorvoliamo sull’idioma bergamasco, praticamente una lingua straniera. Compattare l’Italia sembravaun’impresa«contronatura».

Ep­pure si procedette, pur tra mille ostacoli. Come sia andata, è noto. Risorgimento, guerre d’Indipendenza.È un fatto che il mi­racolo ( o la disgrazia: punti di vista) si com­pì. Va detto che a realizzarlo fu un certo Ca­vour, e a completarlo sotto il profilo finan­ziario un certo Quintino Sella, i quali proba­bilmente erano un pochino più avveduti di quelli che oggi se la tirano da supertecnici. Transeat. Comunque quell’Italia embrionale ap­plicò alcuni princìpi fondamentali allo sco­po di essere una nazione: i bilanci dei regni e dei ducati (già, i famosi staterelli) furono azzerati e parificati; la lira si mangiò le altre valute locali e divenne la moneta ufficiale; i cittadini - da Pantelleria alle Alpi - furono equiparati, tutti uguali davanti alla legge (si fa per dire). Si commisero tanti errori, ma erano tante anche le grane, non ultima il banditismo.

Sia come sia, la struttura na­zionale fu messa in piedi concretamente, non a parole come invece è successo col progetto velleitario dell’Europa unita, che è fallito, non avendo unito un bel niente tranne l’ultima cosa che doveva essere uni­ta: la moneta. Ora ne paghiamo le drammatiche conse­guenze. La Germania è terrorizzata all’idea di garantire i debiti dei Paesi più fragili (e cialtroni,incluso il nostro).Grecia,Spagna, Portogallo, Irlanda e la stessa Olanda gradi­rebbero agganciarsi al treno teutonico e far­si trainare, magari grazie ai Bond europei.

Insomma, i ricchi tognini ambiscono a re­stare ricchi ( chiamaliscemi), ma non rinun­ciano all’euro per continuare a venderci le loro Audi, Mercedes e Bmw. E i poveri (dissi­patori e assistiti da un welfare che non po­trebbero permettersi) aspirano a giocare ancora in serie A pur avendo a malapena i mezzi per figurare decentemente in serie B. Il quadro è desolante, ma di questo si trat­ta.

Chiunque è obbligato a rendersene con­to, anche i nostri governanti. Che aspetta­no ad agire? Fuori il dente (l’euro), non spa­rirà d’incanto il dolore, ma ne avremo estir­pato la causa e nutriremo almeno la spe­ranza di non soffrire più.

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