Mps, salta l’intreccio rosso tra affari e potere Pd

Mps non è una banca qualunque: l’indagine dei pm ora può mandare in corto circuito tutto il sistema

Mps, salta l’intreccio rosso tra affari e potere Pd

La città si arrende. Siena rinuncia al ruolo, unico, di raccordo tra politica e finanza che svolge da quarant’anni intorno al rapporto privilegiato tra l’ex Pci e il Monte dei Paschi. Non una banca qualunque, bensì la più antica del mondo, terzo gruppo creditizio in Italia. Che con Giuseppe Mussari, l’ex presidente divenuto capo dell’Abi, si era evoluto in un crocevia di poteri forti ben diversificati: da Caltagirone a Guzzetti, da Mediobanca a Tremonti.
Il segnale finale della resa arriva con l’inchiesta aperta sull’acquisizione dell’Antonveneta del 2008, coordinata dalla Procura della Repubblica di Siena, che ha portato la Guardia di Finanza a perquisire la banca e le abitazioni di dirigenti, tra cui Mussari. Il fatto che i pm siano proprio quelli senesi è importante: indica la presa di distanza della magistratura locale dal sistema di potere, costruito negli anni, di cui essa stessa è giocoforza parte integrante. Ma che non regge più, non ha più coperture. Liberi tutti, nel disperato tentativo di salvare il salvabile.

L’operazione Antonveneta è costata a Mps 10 miliardi. E quando è stata annunciata, nel novembre 2007, la banca ne capitalizzava 12,6: per procedere ha dovuto prosciugare il proprio free capital ed effettuare un aumento di capitale di 5 miliardi. Qualche tempo dopo, nel settembre 2008, falliva Lehman Brothers, iniziava la crisi e l’operazione Antonveneta, che già era apparsa cara, si rivelava letale, divorandosi il capitale della banca e il patrimonio della Fondazione Mps, che ne deteneva la maggioranza assoluta. A nulla sono valsi i Tremonti bond, un successivo aumento di capitale da 2 miliardi e la recente discesa della Fondazione sotto il 50%: il risultato è stato il corto circuito del sistema di potere. Lo schema era semplice: la politica, attraverso gli enti locali, Comune e Provincia su tutti, controlla la Fondazione. Che a sua volta controlla la banca. Che a sua volta restituisce alla Fondazione, sotto forma di dividendi, le risorse che a questa servono per finanziare il territorio degli elettori. Mentre per la banca dispensa assunzioni importanti. E il cerchio si chiude.

La colorazione storicamente «rossa» delle giunte toscane rendeva la banca «vicina» al Pci (poi Ds, oggi Pd). Qualcuno parla addirittura di cassaforte del partito comunista: non è corretto, dal momento che Mps ha sempre finanziato tutti, essendo anche una delle principali banche, per dire, che più ha lavorato con la Fininvest. Ma certo con comunisti ed ex c’è sempre stato un feeling particolare. Ed era questo che rendeva Siena molto vicina a Roma, anche attraverso epici scontri di potere maturati all’interno del Pci, dei Ds (dalemiani e veltroniani si sono scannati a più riprese intorno a Fondazione e Mps) e del Pd (l’ultimo duello è stato tra cattolici ed ex comunisti sulla successione a Mussari).

Sarebbe però riduttivo ed errato fermarsi qui. Siena ha fatto sistema, intorno alla sua banca, con una rete trasversale che abbracciava tutto: politica, magistratura, università, chiesa, massoneria. E chi si metteva di traverso pagava dazio, come è appena capitato al direttore della Nazione, Mauro Tedeschini, rimosso per aver pubblicato articoli sgraditi su Mps. La resa corrisponde alla fine di questo sistema.

Non a caso è arrivato Alessandro Profumo, ben gradito a Bersani (nella foto), al posto di Mussari, con il compito di ricostruire il patrimonio trovando nuovi capitali, questa volta fuori dalla Fondazione e dunque dalla città stessa, che viene lasciata andare. Lanciando così un messaggio chiaro: il Monte del futuro non sarà più nelle mani del potere della città, che ha abdicato. Ma del mercato. E, naturalmente, di chi in questo si saprà muovere meglio degli altri.

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