Fanculo, pezzo di emme, un «Parlamento pieno di servi». Nel giorno in cui Beppe Grillo rilancia i suoi migliori argomenti politici, il capo dello Stato decide che, basta, la misura è colma. «Certe esternazioni», dice, sono pericolose. «Bisogna fermare la violenza prima che si trasformi in eversione - avverte - e di fronte ad alcune esagerazioni sul piano verbale non possiamo essere tranquilli». Insomma, attenti alle parole, «il terrorismo ci ha fatto imparare tante cose». E finiamola pure con il populismo generalizzato, con l'antipolitica militante, con l'attacco sistematico alle istituzioni democratiche: «Questi non sono i palazzi del potere oscuro, ma i luoghi della sovranità popolare».
È la «Giornata della memoria», 35 anni fa qui in via Caetani, a metà strada tra la sede della Dc e quella del Pci, fu ritrovata la R4 rossa con dentro il corpo di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse. Giorgio Napolitano depone una corona e si intrattiene con Letta, Grasso e la Boldrini. Poi, al Senato, apre le cerimonie di ricordo parlando a braccio, sforzandosi di dare un po' di speranza, soprattutto sulla situazione economica: «L'Italia ha passato non solo momenti di tensione, ma periodi tragici che l'hanno esposta a rischi estremi. Se abbiamo superato quei momenti, sapremo superare le prove che abbiamo davanti». Ce la faremo, però «servono riforme per la ripresa e l'occupazione».
Sui contrasti politici invece il capo dello Stato la vede molto più nera: la violenza «va combattuta, fermata, scongiurata subito, prima che si tramuti in eversione», e non si può stare sereni, spiega, «davanti a certe esternazioni verbali e di propaganda». Gli anni di piombo sono cominciati così. Nel 1973, ben prima del rapimento di Moro, il rogo di Primavalle appiccato da militanti di Potere Operaio. «Non ho dubbi - dice Napolitano -, ai fratelli Mattei spetta di diritto di entrare nell'album doloroso delle vittime del terrorismo, senza parzialità e ghettizzazioni». Grillo e i suoi si diano una regolata, imparino pure loro «dal ricordo del sacrificio».
Le celebrazioni, è la prima volta, si svolgono fuori dal Colle. «Ho voluto - racconta il presidente - che quest'anno la cerimonia si dislocasse in altre sedi istituzionali e vorrei che la si smettesse di identificarle, con una misteriosa definizione, come i palazzi del potere». Basta con questo frasario ingiusto e inesatto. «Se il Quirinale è la casa degli italiani, come ha detto già il mio predecessore Carlo Azeglio Ciampi, le Camere sono i luoghi della rappresentanza democratica».
Non se ne può più di certe distorsioni semantiche. E siccome le parole hanno un peso, non è certo un caso se il presidente sceglie di accostare l'«eversione» alle manifestazioni più estreme dell'antipolitica che da tempo bombarda il complesso delle istituzioni repubblicane con un lessico militare, quasi da partito armato. Solo pochi giorni fa, difendendo «l'ineluttabilità» del governo di larghe intese, si è scagliato contro il termine «inciucio», che con la sua forza evocativa distrugge quello che invece secondo lui in una democrazia parlamentare è doveroso, e cioè mettere in piedi un governo che goda della maggioranza delle Camere. Tutte e due.
Ora Napolitano torna sull'argomento, sperando che gli anni di piombo siano passati. Ma Pietro Grasso ricorda che all'epoca «la politica fece correre troppe parole» prima di accorgersi di quanto accadeva. Avremo imparato?
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