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Nel Pd cresce il mal di pancia e Renzi si trova già assediato

Il leader va allo stadio, i suoi si attivano per disinnescare la scissione. Fassina: l'ultima direzione ha provocato una ferita profonda

Nel Pd cresce il mal di pancia e Renzi si trova già assediato

Nel bel mezzo delle frenetiche trattative per la formazione del suo governo, mentre Alfano («aggrappato alla poltrona del Viminale», secondo il sindaco) minaccia sfracelli se non gli si confermano tre ministri e Pippo Civati annuncia di non voler votare la fiducia, tirandosi dietro altri senatori Pd, Matteo Renzi se ne va allo stadio, a guardarsi la sua Fiorentina. A sentire i suoi, lo slittamento dei tempi dell'incarico era già stati concordato con Napolitano venerdì, e il complicarsi della matassa sulla lista dei ministri era prevista. Al ministero dell'Economia, intanto, spunta un nome pesante: Romano Prodi. «Un po' sul modello Ciampi», sussurra un renziano. Modello che, come si ricorda, finì al Quirinale. Secondo gli uomini del sindaco, non ci sono grandi preoccupazioni, né sul fronte destro degli alfaniani né su quello sinistro del Pd. Il braccio destro del leader, Lorenzo Guerini, si incarica di rassicurare entrambi i fronti che non c'è alcun patto segreto con Berlusconi e Verdini per creare un gruppo di senatori «responsabili» che renda ininfluente l'Ncd. Il malessere interno al Pd però esiste, e lo sanno i colonnelli renziani spediti in giro per l'Italia a rassicurare la base frastornata dalla blitzkrieg renziana. E l'ipotesi di Fabrizio Barca (schierato alle primarie con Civati) ministro sarebbe un segnale alla sinistra del Pd che minaccia rivolte. «Ah sì, Civati dice che fonda un nuovo centrosinistra? E quanti voti prende?», si chiede il renziano Angelo Rughetti. «Il suo è da tempo un comportamento da sciacallo: cerca visibilità a spese del Pd. Non ha votato la fiducia neanche a Letta, ce ne faremo una ragione». Insieme a Civati (il cui voto alla Camera conta poco), sarebbero però in sofferenza anche alcuni senatori a lui vicini: «Se la strada è la stessa del Governo Letta, con stessi contenuti e basso profilo, il problema esiste ed è serio», dice Felice Casson a Huffington Post. «Lavoriamo a un lieto fine per il paese, non per Alfano e Giovanardi», invoca Corradino Mineo. Sei voti dati per ballerini a Palazzo Madama, anche se nel Pd pochi ci credono: «Io sono della minoranza come Civati, ma trovo intollerabile il suo atteggiamento», dice il senatore della sinistra Stefano Esposito, «la Direzione ha deciso, se a Pippo non piace se ne vada, magari con Vendola o con Grillo, di cui si accreditava come pontiere. Coi risultati che abbiamo visto». Civati occupa la scena del dissenso interno, e spinge il resto della minoranza ad alzare i toni: «L'ultima Direzione ha provocato una ferita profonda, che segnerà il partito», dice Stefano Fassina. Lui in quel voto si è astenuto, dopo aver cercato (con D'Alema) di convincere Letta a dimettersi prima di costringere il Pd a sfiduciarlo. Richiesta gelidamente respinta. Anche perché la rottura tra il premier uscente e i dirigenti del suo partito si era già consumata nella Direzione precedente, il 6 febbraio. Lì, Letta avrebbe voluto presentarsi con il suo «Impegno Italia» (quello poi illustrato nell'ultima conferenza stampa a Palazzo Chigi), e chiedere sul quello un voto del Pd. Blindandolo così attorno al suo governo. Ma molti si adoperarono a dissuaderlo, inclusi alcuni ministri (Franceschini, Delrio), per consentire l'intesa con Renzi sul rimpasto.

Un «tradimento» secondo il premier, visto che l'accordo non c'è stato. Un tentativo fatto fallire da Letta, secondo i renziani, quando ha rifiutato di «mettere la data di scadenza» (ad ottobre) al suo governo. Che quindi è scaduto subito.

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