Milano - Sta lì, persa nelle brume del regio decreto firmato da Vittorio Emanuele III nel giugno 1931, «Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza», la norma che dovrebbe stabilire gli obblighi di chiunque voglia indire «una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico». Norma che chiunque viva a Milano - ma anche a Roma, o a Napoli, o a Torino, o in Val Susa, insomma in qualunque luogo dove questa nuova stagione di furori antagonisti agiti i weekend - ha buoni motivi per ritenere abolita di fatto: visto che, come raccontano con dovizie di particolari le cronache dei giornali, dell'obbligo di avvisare il questore è ormai uso comune infischiarsi allegramente, e cortei pacifici o violenti si tengono un giorno sì e un giorno pure, senza avvisare nessuno, sfidando divieti, obblighi e quant'altro. Ma è proprio questa norma che viene bruscamente resuscitata dall'oblio per condannare ieri la deputata forzista Daniela Santanchè. Quattro giorni di gattabuia. «Sarei proprio contenta che mi ci spedissero, vorrei vedere la loro faccia», diceva scaramanticamente la «pitonessa», aspettando la sentenza. Non ci andrà, in galera: il giudice le converte la pena - alla tariffa più che ragionevole di 250 euro al giorno - in una multa di mille euro. Ma il principio è sancito, la legge che si credeva abolita è stata riportata in vigore. Una sentenza, come dire, decisamente in controtendenza. Perché quando a fregarsene del regio decreto sono stati i giovani dell'universo antagonista, lo Stato si è mostrato in questi anni decisamente meno fiscale. In nome del quieto vivere, la polizia chiude un occhio: in fondo, se un branco dei centri sociali si raduna all'improvviso in una piazza, che motivo c'è di andare a provocarli chiedendo di esibire la ricevuta della raccomandata inviata in questura? Se poi la «riunione» si trasforma in un corteo non autorizzato, si continua a fare finta di niente, per evitare guai peggiori. E se i guai arrivano ugualmente, se parte il rituale dei monumenti rovinati, delle banche imbrattate, delle vetrine distrutte, come pretendere che un celerino si faccia avanti a chiedere all'incappucciato di turno di favorire i documenti?
Nelle poche occasioni in cui la violazione delle regole sui cortei si traduce in denunce alla autorità giudiziaria, provvede poi la medesima a rottamare le vecchie norme, eredità dello Stato fascista. Nell'ottobre 2008 duemila ragazzi dell'«Onda» occupano senza autorizzazione piazza Cadorna per protestare contro la riforma Gelmini, bloccano il traffico la polizia arriva, li invita ad andarsene, quelli se ne infischiano, va a finire a spintoni e mezze botte: il 25 marzo 2013 il tribunale milanese assolve da tutte le accuse ventitrè partecipanti alla gazzarra, condannando solo i più volonterosi nel fare a capocciate con la Ps. Stessa scena per i diciassette studenti che l'anno prima, sempre in nome del diritto allo studio, avevano addirittura invaso i binari della stazione di Lambrate, provocando il blocco del traffico ferroviario: assolti in massa, tutti e diciassette, con formula piena.
E così via: la deregulation del diritto di manifestare si incarna in una lunga sequenza di pomeriggi ad alta tensione, senza che nessuno ne risponda. L'ultima puntata, sabato scorso: con i manifestanti per il diritto alla casa, ovvero la créme dei centri sociali milanesi, sguinzagliati per il centro a rovinare e a insozzare. Denunce: zero. Poi, ieri, improvvisa, la sentenza che riporta lo Stato a fare valere i suoi diritti. Erano in quattro gatti, quel giorno di settembre del 2009, a protestare insieme alla Santanchè contro la sfilata di donne schiave del burqa, davanti alla Fabbrica del Vapore.
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