Niet del sindacato, l’azienda non va salvata

La Regione Piemonte aveva un piano per difendere i 280 posti di lavoro della Csea, che rischia di fallire dopo il no Cgil

Niet del sindacato,  l’azienda non va salvata

Ormai è tardi. Troppo tardi. Ormai restano solo gli ammortizzatori - qualche mese di cassa integrazione e l’indennità di mobilità -, finché sarà possibile, e l’ombra del fallimento. Ma ancora qualche settimana fa sarebbe stato possibile tentare una riconversione dei lavoratori in imprenditori. Insomma, instradare una parte almeno dei 280 dipendenti del consorzio Csea sulla strada della cooperativa. Impresa naufragata, nell’Italia che si arrocca e non ha il coraggio di scommettere sulla modernizzazione.

Il tempo è scaduto. La Regione è stata fermata dai sindacati e un’agenzia di formazione dal passato glorioso è ora solo un relitto abbandonato al suo destino. «Io - spiega al Giornale Lorenzo Cestari della Uil - ci avrei messo la faccia. L’idea dell’assessore al lavoro della regione Piemonte, Claudia Porchietto, non era male anche se era una parte della soluzione e non la soluzione. Però gli altri sindacati la vedevano diversamente, poi un’iniziativa del genere, così innovativa ma anche così difficile, avrebbe dovuto avere il sostegno della Cgil che al Csea ha i grandi numeri. Purtroppo non è andata così». «Io - ribatte al Giornale Claudia Porchietto - la faccia ce l’ho messa. La Regione era pronta a fare la sua parte e anche di più, con finanziamenti a fondo agevolato e perduto. Avremmo potuto utilizzare anche gli strumenti legislativi per trasformare i soldi del Tfr in capitale, con l’intento di far ripartire l’impresa. Ma si è perso un mese prezioso, un mese vitale, un mese in cui la situazione è precipitata».

Csea a Torino è un nome noto. È un’agenzia di formazione che tutti conoscono. Da qualche anno se la passava male e i 280 dipendenti avevano già assaggiato la cassa integrazione. Nessuno però immaginava un tracollo così repentino, anche se i lavoratori più volte avevano lanciato l’allarme sui conti. Il 7 marzo scorso improvvisamente la società viene posta in liquidazione per insolvenza. Ha accumulato perdite vertiginose: 15 milioni di debiti. Una voragine. Il liquidatore approfondisce la situazione, ma non trova ancore cui aggrapparsi. Intanto i lavoratori, esasperati dall’avvitarsi degli avvenimenti, entrano in sciopero. Una mossa comprensibile, ma catastrofica dal punto di vista dei risultati: perché in quel modo si interrompono i corsi di formazione obbligatoria per quasi 900 ragazzi di età compresa fra i 15 e i 17 anni e la Regione è costretta, dopo un’estenuante attesa, a cercare nuovi partner per andare avanti.

I soci privati di fatto spariscono, quello pubblico, il Comune di Torino, che ha il 20 per cento delle quote, si tira indietro: non ha soldi da gettare in quel pozzo. Entra in campo la Regione che tenta di salvare il salvabile: traghettare chi ci sta e ha i requisiti verso la cooperativa e tenere vivo il maggior numero di corsi possibile. Certo, è un’operazione di dimagrimento dolorosa, che può salvaguardare non più della metà dei posti di lavoro e come tutte le avventure imprenditoriali è una scommessa e un rischio, ma l’alternativa è solo e soltanto quella degli ammortizzatori: il rubinetto della cassa in deroga, che andrà avanti ancora per cinque mesi, e poi l’indennità di mobilità. «Ho tentato in tutti i modi di bruciare i tempi - aggiunge Porchietto - e ho fatto presente ai sindacati che ogni giorno perso, fra scioperi e lungaggini, era un passo verso il baratro, ma non mi hanno ascoltata. La Regione ha potuto incontrare i lavoratori solo mercoledì scorso e intanto il liquidatore aveva portato i libri in tribunale e presentato istanza di fallimento».

I 280 di Csea in verità erano stati sondati dai sindacati, ma la consultazione aveva dato risultati negativi. Qualcuno ha già una certa età, altri sperano forse di giocare di sponda con il Comune per finire sotto il grande ombrello dell’ente pubblico, la solita mangiatoia italiana che però di questi tempi non dà più fieno; poi c’è chi è contrario ideologicamente all’idea di diventare imprenditore, perdipiù impegnando parte del proprio Tfr. «Tutto quello che si vuole - aggiunge Porchietto - ma le strade percorribili erano solo due: cooperativa o fallimento». «Sì, a questo punto andremo verso il fallimento - conferma Cestari - utilizzeremo tutti gli ammortizzatori e speriamo di poter dirottare almeno una parte dei lavoratori verso altri enti di formazione».

Dunque, si

sta passando rapidamente a spolpare quel che resta dell’agenzia. L’idea di farla vivere e camminare sulle proprie gambe, anche se gracili, non interessa. Meglio morire, naturalmente con l’illusione di essere ben assistiti.

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