Sei un pazzo. Che cosa dici oggi a un trentacinquenne che lascia un lavoro sicuro per aprire un’impresa sua? «Gli amici mi battevano sulla spalla, sei bravo, hai voglia, idee giuste, ma sei un incosciente», racconta Marcello Caliandro, padovano, socio assieme a quattro colleghi di Fabbrica5, azienda che commercializza abbigliamento da lavoro e antinfortunistico. Ha aperto il 30 giugno 2010. Nei primi sei mesi ha fatturato 65mila euro. Nel 2011 ha toccato i 600mila. Per quest’anno le previsioni sono di arrivare a 800mila.
Un miracolo? Il ministero dell’Economia ha fatto sapere che lo scorso marzo sono state aperte 62.284 nuove partite Iva, il 7,4% in più rispetto a 12 mesi prima. Il 42% agisce al Nord, il 23 nel Centro e il restante 35 nel Sud; oltre la metà ha come protagonisti gli «under 35». Significa che c’è un’Italia viva nella grande glaciazione della crisi, gente che coglie i segnali positivi lanciati dalla realtà, che non ha paura di rischiare, di cercare soldi, sondare nuovi mercati, innovare. Di non fermarsi davanti a circostanze all’apparenza avverse.
«Dal mio ex datore di lavoro guadagnavo 2mila euro al mese per 14 mesi più eventuali premi – dice Caliandro - ero di fatto il numero 2, avevo responsabilità e in caso di crisi sarei stato l’ultimo nella lista dei licenziamenti. Non avevo soddisfazioni pari all’impegno e alla professionalità, ma non c’era motivo per mollare». Poi arriva la crisi. L’azienda ridimensiona, basta premi a pioggia, incombe la minaccia di essere cacciati se non si raggiungono risultati. «Eravamo una squadra di cinque persone ben affiatata. Una sera a cena ci accorgiamo che ognuno stava andando per conto proprio. Dieci anni di lavoro assieme, di passione e professionalità svanivano. Abbiamo deciso di rimboccarci le maniche e investire su noi stessi nonostante la crisi. Ci siamo reinventati il nostro lavoro».
La strada è tutta in salita. «Ci guardavano come marziani, ma siamo andati avanti e a fine mese il segno positivo non è mai mancato. L’entusiasmo cresceva e i risultati venivano». Fabbrica5 si è costruita un modello di business tutto suo. I clienti sono altre aziende, dalle officine alle macellerie all’edilizia: vendono tute, caschetti, scarpe speciali, camici, protezioni e anche gadget promozionali. Sono andati a cercarsi le imprese che esportano verso mercati sicuri e assumono, «o almeno non licenziano, dato che dobbiamo vestire i loro operai». Significa tutto il Nord, il Lazio e i distretti dove si fanno investimenti o nuove infrastrutture e anche l’indotto ne può beneficiare.
Spiega Caliandro: «Non abbiamo una struttura commerciale per battere a tappeto il territorio, ci facciamo pubblicità sul web (i giornali costano troppo) e cerchiamo il contatto diretto. Abbiamo appena rifatto il sito internet secondo le indicazioni dei clienti. Abbiamo abbandonato la nostra idea iniziale per essere il più possibile vicini alle loro esigenze».
E i soldi per partire? «Ci siamo autofinanziati». Con le liquidazioni? «No, perché l’ex datore di lavoro ci ha piantato una causa per concorrenza sleale che abbiamo vinto solo pochi mesi fa. Ci siamo autotassati, abbiamo ottenuto un finanziamento a tasso agevolato dalla regione Veneto e abbiamo stretto i denti. Dalle banche quasi nulla, la sfiducia è totale verso le start-up, soprattutto quelle più piccole ma più vitali. Non ci hanno aiutato all’inizio, ci hanno dato un fido pari a un terzo delle nostre esigenze e le cose non sono cambiate nemmeno adesso che abbiamo il vento in poppa.
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