Obama: «Giustizia sarà fatta» Pronti i droni e 200 marines

Obama: «Giustizia sarà fatta» Pronti i droni e 200 marines

Piange l'America un altro 11 settembre, altri innocenti morti in una strage di fanatici islamisti. Piange un suo ambasciatore e tre addetti alla missione diplomatica in Libia che erano con lui. «Quattro straordinari americani» li definisce il presidente Barack Obama. Si commuove Hillary Clinton, che aveva inviato Chris Stevens a Bengasi dopo la caduta del regime di Gheddafi e oggi lo onora «come un eroe dell'11 settembre». È un brutto giorno per gli Stati Uniti, «un giorno difficile». L'orrore del presente acuisce quello del passato.
Nell'attentato si mescolano il fondamentalismo più intollerante, i nemici politici del nuovo governo, i nodi della «primavera araba» lasciati irrisolti, l'orgoglio sanguinario di Al Qaeda che rivendica la strage in un anniversario così tragico. Ma si uniscono anche la relativa debolezza degli Usa in campagna elettorale e la stanchezza dell'Occidente, alle prese con guerre combattute sui tavoli della finanza e non nei teatri della tensione internazionale.
«Il mondo deve restare unito di fronte a tali atti», dice Obama dalla Casa Bianca per esorcizzare il rischio, evidentemente non così remoto, di nuove divisioni. È l'11 settembre, ma la realtà è solo in parte diversa dalla stessa data di 11 anni fa. «L'attacco è stato realizzato da un gruppo piccolo e selvaggio, non dalla gente libica, e neppure dal governo», puntualizza la Clinton. Un'azione militare pianificata da una frangia estremista armata e addestrata che aspettava il pretesto per colpire, e l'ha trovato nella pellicola anti-Maometto.
Il popolo che si rivoltò contro Gheddafi e gli uomini oggi al potere non ha voltato le spalle all'Occidente che li ha spalleggiati nel deporre il raìs: l'amministrazione Obama ne è convinta. Per questo il presidente garantisce: «Continueremo a lavorare con i libici. Vogliamo che sia fatta giustizia, e giustizia sarà fatta». Di fronte al nuovo «attacco scellerato e oltraggioso», gli Stati Uniti reagiscono rafforzando subito la sicurezza nelle ambasciate per proteggere il proprio personale diplomatico. È già partito per la Libia un primo contingente di 50 marines specializzati nell'antiterrorismo ai quali, secondo una fonte del Pentagono, potrebbero seguire fino a 200 militari in tutto. Sono pronti al decollo i droni a caccia di accampamenti jihadisti. Gli Usa hanno anche deciso di evacuare tutto il personale, diplomatico e non: resterà soltanto una unità di emergenza all'ambasciata di Tripoli.
Allo stesso tempo Obama si preoccupa di non incrinare i rapporti con il mondo arabo. L'attentato «non romperà i legami tra gli Stati Uniti e la Libia, reagiremo assieme per assicurare alla giustizia chi ci ha attaccato». «Noi abbiamo sempre rifiutato di denigrare il credo di altri popoli, ma non esiste nessuna giustificazione per questi atti di violenza». L'accenno al rispetto per le altre religioni ha acceso la destra americana e l'avversario di Obama alle presidenziali. Mitt Romney ha liquidato come «scandalosa la prima risposta dell'amministrazione, una dichiarazione di solidarietà con chi aveva dato il via alle aggressioni. Gli Usa non devono mai scusarsi per aver difeso i propri valori né possono tollerare attacchi violenti ai propri cittadini». Ambienti ultra-conservatori hanno azzardato il paragone con un altro presidente democratico, il Jimmy Carter che tentennò durante la crisi con l'Iran del 1979. Obama ha ignorato la polemica innescata dal rivale, lasciando che fosse il portavoce a replicare. Il presidente ha invece invitato gli americani alla coesione: «Oggi il nostro popolo è unito per sostenere le famiglie dei caduti. Gli Usa condannano con fermezza l'attacco». Ha sottolineato l'aiuto della gente a contrastare l'attacco e soccorrere i feriti: «È particolarmente tragico il fatto che Stevens sia stato ucciso a Bengasi, città che ha aiutato a liberare. Sono profondamente addolorato per la sua morte e profondamente grato per il servizio reso». Le bandiere a stelle e strisce sventoleranno a mezz'asta fino a domenica.
Gli Stati Uniti si commuovono ma non abbandonano la missione. «Non volteremo le spalle alla Libia - dice la Clinton -, l'impegno per un Paese stabile e libero resta intatto. La nostra missione è nobile e necessaria.

Avevo chiesto a Chris di essere il nostro inviato, è arrivato su una nave cargo al porto di Bengasi e ha iniziato a costruire relazioni con i ribelli. Ha rischiato la sua vita agendo contro un tiranno e ha dato la sua vita. Il mondo ha bisogno di altre persone come lui».

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