La parabola di Bersani: sbaglia la strategia e ora rischia di sparire

Non è protagonista della campagna elettorale, dopo le primarie si è spento. Un flop andare da Vespa mentre Silvio trionfava da Santoro

Il segretario del Partito Democratico Pierluigi Bersani
Il segretario del Partito Democratico Pierluigi Bersani

Bersani chi? Bersani, il segretario del Pd, quello che ha trionfato nelle primarie, il leader che la sinistra candida a palazzo Chigi, il favorito nei sondaggi... Ah, quello. Già: Bersani. È incredibile come il ritorno a Firenze di Matteo Renzi abbia letteralmente spento i riflettori sul Partito democratico, e relegato Bersani nell'angolo meno illuminato del palcoscenico.
È cominciata la campagna elettorale - e la posta in gioco non è piccola - e Bersani è scomparso. Cancellato. Silenziato. Tanto che a Largo del Nazareno, dopo il trionfalismo dei primissimi giorni, comincia a serpeggiare un certo malumore, s'affacciano perplessità, e crescono i dubbi sulla capacità dell'onesto ex presidente dell'Emilia-Romagna di combattere, dopo tante schermaglie, la battaglia vera. Perché un fatto è certo: Bersani sarà pure il favorito, ma non figura fra i protagonisti della campagna elettorale. Persino Ingroia, l'ultimo arrivato, fa più notizia (per esempio quando denuncia gli «impresentabili» presenti nelle liste democratiche).
Lo scontro televisivo di giovedì sera con Silvio Berlusconi è stato devastante: mentre da Santoro il Cavaliere sfiorava i 9 milioni di spettatori con uno share medio del 33,6%, nel salotto di Vespa il povero Bersani doveva accontentarsi di 2 milioni di spettatori e del 16,2% (Berlusconi il giorno prima aveva totalizzato il 23,1%, sette punti in più). D'accordo, l'Auditel non decide i seggi nel prossimo Parlamento. D'accordo, il paragone è improprio perché Porta a porta va in seconda serata e Servizio pubblico in prima. Ma bisognerebbe dare un premio al genio che ha suggerito a Bersani di andare in tv mentre un'altra rete programmava il più atteso evento televisivo dell'anno, il più carico di significati, il più prolifico di riverberi mediatici. La performance di Berlusconi è infatti destinata a prolungare i suoi effetti nel tempo, e segna a tutti gli effetti una svolta nella campagna elettorale. Il segretario del Pd non poteva impedirla, ma avrebbe almeno potuto evitare di amplificarla con il suo flop a Porta a porta.
L'aspra lotta che Bersani conduce contro le più elementari regole della comunicazione è soltanto un aspetto del grigiore dimesso dell'aspirante premier, e della sua marginalità nella campagna. Se non fosse per Berlusconi, che nella sua battaglia contro Monti ha detto di preferire un voto al Pd piuttosto che un voto ai centristi, del Partito democratico non parlerebbe nessuno. O meglio: il Pd va sui giornali soltanto perché gli altri lo attaccano e lo criticano: non riesce mai ad imporre la propria agenda, i temi sui quali si sente più forte, le proprie preferenze.
Emblematico lo scontro con Monti, che ogni giorno martella Bersani ricavandone in cambio sorrisi misti a grugniti. Il presidente del Consiglio, ora che non ha più bisogno dei voti del Pd per far passare i suoi decreti, non risparmia le critiche più feroci: il Pd è incerto, oscillante, confuso; al suo interno convivono linee di politica economica contraddittorie e inconciliabili; le posizioni conservatrici della Camusso, di Vendola e di Fassina «bloccano» le riforme e potrebbero rendere impossibile ogni futura collaborazione. E comunque, «è prematuro parlare di alleanze». Bersani incassa, tenta la ripicca negando a Monti quel Quirinale che gli aveva incautamente promesso il mese scorso, e poi subito si accovaccia chiedendo benevolenza e insistendo (come da quattro anni fa con Casini) sulla necessità di una collaborazione futura. Il fatto è che la modestia mediatica di Bersani, l'insignificanza del Pd nella campagna elettorale e l'incapacità di esserne, se non protagonisti, almeno comprimari, non è un capriccio del destino e neppure soltanto un effetto collaterale dell'«usato sicuro». È invece la proiezione di una posizione politica che appare ogni giorno più fragile, arroccata e minoritaria.

Non soltanto perché i sondaggi non riescono ad andare oltre il 35% per l'intera coalizione, ma anche e soprattutto perché la scelta di Bersani di chiudersi a sinistra raccogliendo tutti i radicalismi e i conservatorismi del passato, ed escludendo invece i riformisti e i liberali, rende il Pd (con l'appendice pittoresca di Sel) un partito zoppo, inadatto a governare da solo, bisognoso di alleati. Altro che gioiosa macchina da guerra: la sinistra quest'anno sembra piuttosto un motore spento, e un po' triste.

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