Il Pd non è ancora al governo ma già si spartisce le poltrone

RomaCi mancava solo il «papello». Un foglietto di carta da pane, pure un po' unto, che rivelerebbe segrete ambizioni e oscuri patti tra maggiorenti del Pd. Che già vedono la prossima legislatura come la terra promessa in cui installarsi, e prenotano le aree migliori.
Nel foglietto - scritto da un «rampante dirigente» del Pd e reso noto ieri dal Foglio - ci sono in verità solo i nomi dei soliti noti, prenotati per incarichi di cui si parla da mesi. A Walter Veltroni piacerebbe fare il presidente della Camera. Un ruolo istituzionale di grande prestigio, super partes, e che lascia anche ampi spazi di manovra per le attività che lo appassionano: celebrazioni, convegni, mostre, appelli per cause umanitarie, mecenatismi. È in vista di questo traguardo possibile, assicurava malignamente qualche tempo fa il sito il Retroscena, che Veltroni ha praticamente sciolto la sua corrente ed è diventato un silenzioso supporter di Bersani, anziché appoggiare, come molti dei suoi speravano, la candidatura di Renzi.
Massimo D'Alema sogna invece un incarico internazionale: la Commissione europea, addirittura - azzarda qualche fan - la guida della Nato. Magari passando prima per un ritorno alla Farnesina, che lo metterebbe in pole position non appena si aprisse una finestra di opportunità oltreconfine, con l'appoggio assicurato dei colleghi del Pse.
Rosy Bindi ha anche lei, e come dubitarne, grandi aspirazioni. A Montecitorio si vocifera da mesi che il suo sogno nel cassetto sarebbe lo stesso di Veltroni, ossia la presidenza della Camera: per ripercorrere i fasti della Iotti, tenere in pugno i destini della maggioranza futura, e piazzarsi un gradino sotto il Quirinale, così magari al prossimo giro può entrare in gara. Nel «papello», però, la Bindi viene tristemente retrocessa a vicepremier, ruolo quanto meno incolore e di consolazione. Evidentemente Veltroni ha più frecce al suo arco. Nel «papello» si parla anche di Enrico Letta allo Sviluppo economico, di Bersani ovviamente a Palazzo Chigi (ma si terrebbe anche l'interim dell'Economia, o così almeno spera la gola profonda Pd) e di Dario Franceschini come segretario del partito, dopo l'ascesa di Bersani al governo. Anche questa è un'ipotesi di cui si è variamente discettato nei mesi scorsi, e che risponderebbe agli equilibri cencelliani mai cancellati dal Pd (se un ex Ds va al governo, il partito spetta a un ex Ppi) ma che incontra forti ostacoli nell'ala post-diessina del partito. Che punta a una definitiva svolta «socialdemocratica» del Pd, e trova del tutto fuori luogo che ad assumerne la guida sia un post Dc.
Volendo, altri nomi potrebbero entrare nell'oroscopo dei futuri organigrammi. C'è l'attuale ministro Fabrizio Barca, che il Pd corteggia assiduamente per riproporlo nel prossimo governo. C'è il governatore dell'Emilia Romagna Vasco Errani, che qualcuno già vede come il futuro Gianni Letta di Bersani, di cui è il consigliere più stretto. C'è Debora Serracchiani, che per ora è candidata alla presidenza del Friuli ma che secondo i maligni scalpiterebbe per un ruolo a Roma. C'è Luciano Violante, paziente tessitore delle trattative sulla legge elettorale e giurista di prestigio. E c'è persino Bruno Tabacci, attuale assessore al Bilancio a Milano. Secondo i bene informati, Tabacci si è candidato alle primarie in accordo con Bersani, per coprire l'ala «destra» e togliere voti a Renzi, e potrebbe essere ripagato con incarichi di governo. Ma sono tutte elucubrazioni premature. Bisogna prima arrivare alle elezioni. E alla legge elettorale, che è la fonte del vero dramma che si vive ora dentro il Pd. Già, perché se passasse il modello Provincellum di cui si parla, basato in gran parte sui collegi, ancorché proporzionali, molti di quelli che (anche nella segreteria di Bersani) si sentivano già l'elezione in tasca grazie alle liste bloccate del Porcellum dovranno vedersela con i voti, e sarà dura. Senza contare che gli aspiranti sono un esercito, dai segretari regionali a molti quadri, dirigenti o eletti locali che vogliono finalmente fare il salto a Roma (basti pensare a casi come Ivan Scalfarotto o Pippo Civati); alle varie realtà da accontentare: la Cgil (Guglielmo Epifani andrà candidato, ma è solo la punta dell'iceberg), il giro di Repubblica che vorrebbe una sua pattuglia di «indipendenti», le associazioni che Bersani corteggia, i seggi per socialisti, radicali, verdi.

Senza contare, poi, Renzi: se a fine anno ci saranno le primarie, e il sindaco di Firenze avrà un buon successo, ci sarà anche lui a reclamare voce in capitolo sulle candidature. Un rebus gigantesco, in confronto al quale formare il governo sarà una passeggiata.

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