Il risultato complessivo è «straordinario», ma i ballottaggi segnano anche «la fine delle posizioni di rendita elettorale, perché è tramontato il tempo in cui qualcuno sa che in quel posto si vince di sicuro». Dal lontano Oriente, dove è in tour tra Vietnam, Cina e Kazakistan, Matteo Renzi prende il toro per le corna. E invece di imballarsi nelle conte che fanno i suoi a Roma per sottolineare che si è vinto, il premier parte dalle sconfitte. Anche perché, sotto sotto, a lui quelle sconfitte non dispiacciono poi tanto. «Matteo è fortunato pure quando perde», sottolinea malizioso un dirigente Pd, «l'aver perso Livorno, Padova, Potenza o Perugia, nel cuore dell'insediamento storico e di potere dei post-Pci, concorre ad aiutarlo nel suo progetto di cambiare pelle al Pd».
Anche se Renzi si guarda bene dall'alimentare il dibattito interno, nato con le inchieste Mose ed Expo e lievitato con i ballottaggi, su «Pd vecchio» che perde e «Pd nuovo» che vince. «E fa bene», chiosa il bersaniano Nico Stumpo, punzecchiando i pasdaran renziani, «ad ignorare quelle battute da peones di Transatlantico. Renzi ha fermato questo stucchevole dibattito già sul caso Venezia, spiegando che non esiste un Pd di prima e un Pd di dopo, e si è comportato da segretario di tutti». Di certo, il premier non vuole tensioni interne alla vigilia della nomina della nuova segreteria «ecumenica» del Pd, e di giorni cruciali per le riforme: ieri si parlava di un probabile nuovo incontro, forse in settimana, con Berlusconi per chiudere su Senato e legge elettorale. Ma tenere a freno dal Vietnam le anime interne non è facile: «C'è una sinistra nuova, che ha rivoluzionato il Pd dall'interno e lo ha portato al 40%, ma c'è ancora, in alcune realtà, l'anima del vecchio Pd. Il risultato negativo si è verificato nelle città dove il Pd non si è rinnovato», attacca il sindaco di Firenze Dario Nardella. Una sentenza che manda su tutte le furie l'ala più tradizionale del partito: «Ma davvero c'è chi pensa che si vince dove il corso renziano si è fatto strada e si perde altrove? La campagna elettorale l'abbiamo fatta tutti insieme», polemizza Gianni Cuperlo.
Il bottino complessivo portato a casa dal Pd è più che ragguardevole: 160 Comuni sopra i 15mila abitanti vanno al centrosinistra (di cui 10 capoluoghi), contro i 37 del centrodestra e gli appena 2 dei Cinque Stelle. Con un guadagno netto di 32 Comuni rispetto alla scorsa tornata.
«Le città che abbiamo perso bruciano certo», dice il vicesegretario Pd Lorenzo Guerini, «ma Bergamo, Pavia, Cremona, Pescara, Vercelli, Biella dove eravamo all'opposizione significano pur qualcosa...». Soprattutto una cosa: il Pd ha fatto breccia nel Nord, da sempre spina nel fianco del centrosinistra, che ora invece decide di fare un investimento di fiducia sulla leadership di Renzi. «Bisogna stare attenti, è un voto oculato che alla prima grossa delusione può andarsene», ragionano ai vertici Pd, «ma è un segnale importantissimo per dare vigore a una nuova sinistra di governo».
Alcune batoste erano largamente previste: su Padova al Nazareno avevano già messo una pietra sopra fin dal primo turno, tant'è che Renzi lì non si è fatto vedere (al contrario di Bersani, andato a sostenere il successore del «suo» Zanonato). A Livorno, dove Renzi ha mandato Lotti e Nardella a fare campagna elettorale, qualche dubbio di farcela c'era: «Dopo 70 anni di monopolio, un po' di rottamazione era più che prevedibile», ironizza un renziano. C'era anche grande preoccupazione per Modena, dove invece il Pd ha tenuto bene. Le sconfitte di Perugia e Potenza, invece, non erano state messe nel conto.
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