Pd in piena sindrome Tafazzi: se trova un leader lo demolisce

Tutti contro Renzi, come era stato agli esordi con Veltroni. Torna il "fuoco amico", la specialità della casa

Roma - Tafazzi esiste. E vota Pd. Il personaggio interpretato da Giacomo Poretti che si percuote con grande soddisfazione le parti basse con una bottiglia è da anni il vero maître-à-penser dei democratici italiani, bravissimi a farsi male da soli. Godendone, peraltro. In questa chiave vanno lette anche le dimissioni del presidente del partito Gianni Cuperlo, indispettito dal nuovo leader Matteo Renzi. Al di là delle ripicche personali, dalle ragioni vere o presunte, il simbolo di una coazione a ripetere, di un karma inesorabile per il primo partito riformista e autolesionista. Non fa in tempo a emergere un segretario carismatico che dopo anni di pensiero debole promette di garantire una leadership forte e longeva, e magari anche un buon incasso elettorale, ed ecco subito rispuntare il tafazzismo. Critiche, spaccature, correntoni e correntine, fuochi amici, cecchini, impallinatori. Il tutto in nome della dialettica interna, ça va sans dire.

Renzi per la verità appare più vaccinato dei suoi predecessori al virus della fronda interna. Ma la pur breve storia del Pd è talmente piena di rovinosi autogol (che a volta hanno fatto perdere un match e qualche volta anche il campionato) da farci sospettare che anche stavolta in largo del Nazareno potrebbero riuscire a sfasciare tutto. Accadde già a Walter Veltroni, primo segretario dem, che da sindaco di Roma vinse a mani basse le primarie del 14 ottobre 2007 (oltre il 75 per cento, percentuale più alta di quella incassata da Supermatteo) e si vide consegnare le chiavi del partito nuovo di pacca, con ancora il cellophane sui sedili. Sembrava l'inizio di un'era, era quello di un'odissea. Veltroni non riuscì a impedire la caduta del governo Prodi, perse seccamente le elezioni dell'aprile 2008 e diventò il bersaglio di un incessante fuoco amico che, unito alla nuova e inattesa sconfitta elettorale del febbraio 2009 alle regionali in Sardegna, spinse l'amerikano ad autorottamarsi. Faide interne che l'ex sindaco di Roma ricorda ancora al punto da avvertire, qualche mese fa in un'intervista, Matteo Renzi: «Tra amicizie sincere, amicizie improvvisate e inimicizie mascherate, rischia di essere triturato come è capitato a me. Io sono stato abbattuto dal fuoco amico».

Ma anche dopo Veltroni il tafazzismo democratico si è manifestato spesso. La segreteria di Pier Luigi Bersani, la più lunga dell'era Pd (quasi 41 mesi in tutto) dovette affrontare il cecchinaggio interno in numerose occasioni, naturalmente a partire dalle primarie dell'autunno 2012, in cui lo smacchiatore di giaguari batté Matteo Renzi aggiudicandosi il ruolo di candidato premier alle elezioni del successivo febbraio: una vittoria fiacca che conteneva già i germi di una vocazione allo sconfittismo, esaltata anche dall'essere Bersani un uomo forse troppo per bene. Dopo la vittoria dimezzata delle elezioni 2013 la segreteria di Bersani era di fatto già costruita sulla sabbia. A farla venir giù sarebbe bastato anche meno, ma arrivò il vero suicidio perfetto degli ex-comunisti: i 101 voti che mancarono a Montecitorio per l'elezione a presidente della Repubblica di Romano Prodi, dopo che già Franco Marini, altro candidato di bottega (anzi di bottegone) era stato cassato.

Bersani così attese il battesimo del Napolitano-bis e salutò. Se come scriveva Lenin l'estremismo è la malattia infantile del comunismo, il tafazzismo è la malattia senile del gauchismo all'italiana. E la cura non sembra ancora esser stata trovata. Nemmeno dal dottor Renzi.

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