Pieni poteri a Maroni: «Nessuna tutela»

Pieni poteri a Maroni: «Nessuna tutela»

nostro inviato a Assago (Milano)

Vittorioso, forte di 610 mani alzate contro due contrarie, ma il compito che ha davanti fa «tremare i polsi». Bossi, che piange sul palco, è annullato da statuto, ridotto a simulacro, ma la Lega che prende in mano Maroni è ancora a immagine e somiglianza del vecchio capo, e ribaltarla come un calzino sarà un bel lavoro. Gli striscioni per Bossi («Un solo capo Bossi», «Bossi tu sei la Lega», «Busto con Bossi») e i cori per l’Umberto, palesemente emozionato e provato dalla solitudine della sconfitta, fanno capire quanto è impegnativa la strada di Maroni, che nel suo discorso disegna una nuova linea, affascinante, per la Lega che riparte dai «sindaci guerrieri» e dice «via dalle poltrone romane, via dalla Rai!», con uno stile diverso («sono un timido») dal trascinatore di popoli quale è stato il suo predecessore, che resta lì come presidente federale a vita e con ancora una certa presa sul popolo leghista.
Ma questa cosa Maroni vuole chiarirla subito, sarà un segretario «senza tutele, senza commissariamenti, senza ombre», cioè un capo vero e non a mezzo con altri, a cominciare da Bossi, e a proseguire con l’eterno sfidante Calderoli, senza più cariche nel partito, uno dei più ridimensionati dal congresso. «Patti chiari amicizia lunga» ripete Maroni, come dire che lui fa il segretario federale solo alle condizioni scritte nello statuto, perché «non me l’ha ordinato il medico di farlo, anzi me l’ha sconsigliato». Maroni e Bossi, dopo il gelo della giornata (saluto di circostanza, Maroni che respinge la richiesta di faccia a faccia in extremis prima dell’acclamazione) si sono incontrati, a votazioni finite, in una saletta del Forum di Assago. Con Bossi, sigaro in bocca, che si è lamentato ancora dello statuto fatto «a sua insaputa», senza la clausola del 20% di candidature riservate a lui («sennò cosa sto qui a fare?»). Maroni gli ha spiegato che il consiglio federale aveva già bocciato quell’emendamento la settimana scorsa, e che sono stati altri a mettergli in testa idee sbagliate sul presunto «imbroglio». E che una bocciatura della sua mozione al congresso, davanti a tutta la Lega, sarebbe stata una fine umiliante per lui, meglio così, che si metta l’animo in pace. «Beghe interne» che Maroni vuole archiviare del tutto, ultimando il repulisti (che si compirà con la non ricandidatura di alcuni) e completando la rosa di vertice leghista. A breve i vicesegretari federali, fedelissimi, e già fatti i consiglieri federali, dove siederanno due soli bossiani, il deputato Desiderati e il sindaco Bitonci già sfidante di Tosi.
La rifondazione maroniana passa per una road map precisa. Lo staff è convocato per luglio, agli Stati generali del Nord, che sarà una specie di assemblea generale dei popoli padani, per dare al segretario il polso di quel che vuole il bacino elettorale leghista (e non farselo scippare da Grillo, o Montezemolo). Poi una struttura di partito che prevede un ufficio politico federale, organizzato in dipartimenti, guidati da persone «che ne capiscano di economia, sicurezza, ambiente, in modo che tutti i leghisti sappiano qual è la posizione della Lega su ogni singola questione», e soprattutto per evitare quel che succedeva nella Lega formato Bossi, dove tutti erano liberi di esternare su tutto, contraddicendosi a vicenda. La comunicazione affidata alla sua portavoce e al fidato Caparini, tutto sotto controllo diretto. A settembre Pontida e forse Venezia, poi le «scuole quadri» e anche una «scuola federale». Per andare dove? Via da Roma, cosa che deciderà il nuovo Consiglio federale, forse già venerdì prossimo. Per il capogruppo Dozzo la ritirata strategica da Roma potrebbe iniziare subito, con la diserzione delle sedute d’aula e commissione da parte di deputati e senatori leghisti, o addirittura le dimissioni da parlamentari. Ma il pensiero è al 2013, dove la Lega potrebbe non presentarsi per il Parlamento.
Le alleanze si vedrà, mentre Berlusconi recapita i suoi auguri al nuovo segretario. «Via da questi posti di potere, che non ci hanno portato nulla» dice Maroni, «via anche dai doppi incarichi». La Lega formato Bobo ha un sogno-obiettivo, subito dopo l’indipendenza: «Lega primo partito della Padania». «Il territorio è la chiave» per tornare a vincere, sull’esempio della Csu bavarese. La ricetta maroniana punta su «monete locali complementari» all’euro, regionalizzazione del debito pubblico (ognuno si paga il suo), zero aiuto alle grandi imprese decotte, dazi e protezioni per le imprese («lo fanno in Gran Bretagna e Usa, perché non possiamo farlo noi?»), sistema fiscale alla svizzera con solo un terzo delle entrate allo Stato, guerra al patto di stabilità che «affama i Comuni virtuosi».

E poi, per risanare il partito, nuovo codice etico e nuova gestione trasparente dei soldi. D’ora in avanti gli unici diamanti in casa Lega, dice il neo segretario appena eletto, saranno solo i suoi militanti. Applausi generali, silenzio torvo a Gemonio.

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