Di Pietro sceglie la «scimitarra» e mette sotto assedio il Colle

RomaL’assalto al Colle si ferma di colpo, a metà di via della Dataria. Sarà il sole, sarà il pendio della strada, sarà che a un certo punto pure il manipolo di arditi dipietristi si rende conto dell’incongruenza un po’ grottesca e po’ eversiva di questa mini marcia su Roma. Fatto sta che non c’è bisogno dei corazzieri a cavallo per arginare i descamisados di Tonino, bastano due parole del commissario di pubblica sicurezza e anche l’asprezza della salita. Così gli arrembanti guidati dal senatore Stefano Pedica, tutti in t-shirt bianca con sopra scritto «Giorgio non firmare», si bloccano spaesati in mezzo all’erta. Il corteo di ferma, ma la gravità del gesto resta.
Poi arriva lui, camicia bianca e cravatta: è vestito come Obama all’Aquila, ma l’effetto è diverso. Parlotta con la polizia, assicura di non voler provocare incidenti e ottiene di raggiungere il piazzale sotto le Scuderie del Quirinale e di terminare lì il suo girotondo con il seguente pistolotto: «Chiediamo al presidente della Repubblica che usi la sua forza propulsiva per rinviare alla Camere la legge sulle intercettazioni per non avere un Paese in mano ai piduisti. Diciamo no al guanto di velluto, come con il lodo Alfano. Non riusciamo a capire perché l’abbia promulgato».
Parole dure. Ma è zucchero in confronto alla lunga lettera aperta che il «fiero guerriero», come Napolitano lo ha definito, mette sul suo blog. Una vera requisitoria come ai bei vecchi tempi quando era Pm. Una missiva in cui il leader dell’Idv contesta al Quirinale una serie di atti: dalla promulgazione del pacchetto sicurezza al via libera al lodo Alfano sull’immunità per le alte cariche della Repubblica, dalla «mancanza di iniziativa» dopo la cena tra Berlusconi e due giudici costituzionali, alla lettera di rilievi tecnici con cui il capo dello Stato ha accompagnato la firma alla legge sulla sicurezza, che per Di Pietro «è del tutto irrituale giacché la Costituzione assegna al presidente della Repubblica il potere di inviare messaggi alle Camere ma non al governo». E poi giù otto domande a Napolitano, stile interrogatorio in questura; «È vero o no che...». Conclusione: «Io la rispetto, lei cerchi di rispondere nel merito invece di offendermi gratuitamente».
Ma il capo dello Stato, come fanno notare dal Colle, ha già risposto in anticipo lunedì durante la cerimonia del ventaglio. Ha spiegato chiaramente che non viviamo in una Repubblica presidenziale. Che le leggi possono-devono essere rimandate alle Camere se ci sono profili di incostituzionalità o se manca la copertura finanziaria, non se piacciono o non piacciono al Quirinale. Che tra i tra suoi poteri c’è anche quello di scrivere al governo e ai singoli ministri: altro che «irrituale», Luigi Einaudi sulla sua corrispondenza con il ministro del Tesoro dell’epoca ci ha fatto persino un libro. Che lui non offende nessuno, anzi «ascolta pure le critiche aggressive», però chi spera di condizionarlo, sbaglia.
Concetti precisi, che però a Di Pietro sono evidentemente scivolati addosso come l’acqua. Basta leggere la requisitoria, quando sostiene la «palese contraddittorietà» di Napolitano nelle sue «valutazioni sulla legge per la sicurezza, dai lei definita disomogenea ed estemporanea, e la decisione di firmarla». O quando lo accusa di avere «un guanto di velluto» perché, invece di mandare messaggi al Parlamento, spedisce «al capo del governo letterine a mo’ di rimprovero come piume d’oca». O anche, quando cerca di metterlo già in mora sulle intercettazioni - norma che Napolitano considera da rivedere ma necessaria - definendola «un bavaglio dell’informazione». O ancora, quando insiste sul lodo Alfano o sulla cena dei due giudici della Consulta a Palazzo Grazioli.
Insomma, Di Pietro non argomenta, attacca. Non polemizza, cerca lo scontro istituzionale. Su Micromega, lo spalleggia Marco Travaglio che in articolo intitolato «Giorgio Ponzio Napolitano» spara addosso al Colle accusandolo di arrogarsi poteri che la Carta non prevede: firmare leggi che non gradisce (sicurezza), anticipare al governo che non siglerà certi decreti (caso Englaro), avvertire Palazzo Chigi che non promulgherà altri provvedimenti se non saranno in parte cambiati (le intercettazioni), scendere dell’agone politico: «Era dai tempi di Cossiga che un capo dello Stato non se la prendeva formalmente con un leader dell’opposizione».


Sotto tiro c’è dunque l’essenza dei poteri del presidente, la moral suasion, cioè il compito di cuscinetto istituzionale, di ammortizzatore, di garante super partes. Il Quirinale tace: «Abbiamo già parlato». Il Pdl insorge: «Di Pietro è un golpista» E si sveglia il Pd. «Non ha ritegno - dice Anna Finoccharo - pur di lucrare un vantaggio politico destabilizza le istituzioni».

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