La campagna elettorale lorsignori non l'hanno fatta. Mario Monti e i suoi tecnici sono arrivati al governo senza passare per il giudizio delle urne. Avevano un solo tema in agenda, nientemeno che salvare l'Italia, senza il capestro del rito preelettorale delle promesse; potevano risparmiarsi l'armamentario dei sogni da non trasformare in illusioni. Invece no, Monti non ha resistito. Non ha promesso prima del voto ma l'ha fatto dopo, lastricando i suoi nove mesi a Palazzo Chigi di impegni, assicurazioni, garanzie non mantenute.
Il governo ci ha sommerso di tasse, e quelle nessuno (a parte Romano Prodi) le comunica in anticipo. Per il resto, il consuntivo è disastroso. A partire dal dato su cui lo spread sfreccia come un surfista sull'onda: il debito pubblico. I sacrifici di questi mesi dovevano servire a ridurre questa montagna debitoria, che invece continua ad aumentare. Ieri si è saputo che giugno ha toccato un nuovo massimo: 1.972,9 miliardi di euro. Diceva Monti il 17 novembre al Senato nel discorso di insediamento: «Dobbiamo porci obiettivi ambiziosi sul pareggio di bilancio, sulla discesa del rapporto tra debito e Pil» (prodotto interno lordo). Risultato dopo 40 settimane: il debito cresce e il Pil crolla, assieme a redditi, consumi, occupazione e fiducia. Non c'è settore in cui il governo abbia mantenuto ciò che enfaticamente aveva promesso. A fine maggio, al Forum nazionale dei giovani, Monti aveva annunciato l'arrivo di otto miliardi di fondi strutturali europei da sbloccare per favorire l'occupazione giovanile. Non se n'è vista l'ombra. Pochi giorni prima - maggio è il mese delle belle speranze - sempre Monti aveva lanciato un piano per il Mezzogiorno contro la povertà «per attenuare il disagio delle persone colpite dalla crisi». I miliardi per il Sud (2,3) erano un po' meno di quelli destinati ai giovani, ma la fonte era la stessa: l'Europa che il presidente del Consiglio ben conosce. Quando il premier parla di fondi comunitari sembra già di sentire gli euro tintinnare in tasca. Il piano era ambizioso, prevedeva «obiettivi di inclusione sociale», aiuti ai non autosufficienti, sostegno al privato sociale, sviluppo delle imprese e della ricerca, e molto ancora, compresa la mitica social card. Che è sparita, come tutto il resto. A marzo, grandi titoloni sui giornali amici per un annuncio epocale: il governo ha in cantiere una riforma del fisco che prevede un fondo per ridurre le tasse alimentato dai frutti della lotta all'evasione. Anch'esso finito nel cestino dei sogni svaniti. Come il piano anti speculazione di cui si è parlato il mese scorso, fitto di una terminologia inglese oscura per i cittadini: antispread, fiscal compact, spending review. Ci ha pensato Frau Merkel a svuotare di ogni contenuto i tentativi montiani di una grande alleanza europea contro gli speculatori internazionali.
Il tecno-carnet delle mancate promesse è fitto. Dovevano tagliare le province, come chiesto perfino dalla Banca centrale europea nella lettera del 5 agosto 2011 che Monti ha assunto come faro della propria azione. Ma quei tagli sono diventati prima «accorpamenti» poi «riorganizzazione» e finiranno in nulla. Così come quelli alla politica, che per il superconsulente governativo Giuliano Amato si riducono a controlli sui bilanci dei partiti affidati alla Corte dei conti e vaghe proposte di limare il finanziamento pubblico.
L'altro superconsulente Enrico Bondi, che doveva passare la falce sugli sprechi della pubblica amministrazione, aveva chiesto agli italiani di segnalargli via mail i possibili interventi, salvo poi scoprire che i 140mila messaggi piovuti a Palazzo Chigi ponevano un problema di riservatezza e quindi non potevano essere utilizzati. Le poche riduzioni di spesa sono state ulteriormente ridotte, come quelle ai tribunali inefficienti.
Difficilmente sarà completata entro il 2013 l'autostrada Salerno-Reggio Calabria, come promesso («Ci metto la faccia») dal ministro Corrado Passera.
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