Ma davvero Matteo Renzi è populista? A leggere le ultime dichiarazioni di Stefano Rodotà sì, anche se del terzo tipo (o del secondo, se Grillo e Berlusconi sono per lui interscambiabili). «Un populismo più soffice, che cerca di opporre un populismo buono a quello cattivo, ma ne mantiene i caratteri, come il rifiuto della mediazione».
Il professor Rodotà è un politologo di fama, ma ci sembra confondere il leaderismo, cesaristico o da marketing che sia, con il populismo. Vediamo di spiegarci meglio. In nome della governabilità, Matteo Renzi vuole far fuori il popolo sovrano. Ha messo su una proposta di riforma elettorale che assomiglia all'Igor del film Frankenstein junior («Castello ululì, lupo ululà»): c'è un forte premio di maggioranza e l'obbligo di fatto a coalizzarsi in un cartello dove i partiti minori saranno i portatori d'acqua del fratello maggiore che li aggrega, ma di quell'acqua benedetta non berranno alcuna goccia (ovvero niente deputati), tutt'al più godranno di qualche spruzzata clientelare; un'alta soglia di sbarramento che uccide chi corre da solo; liste bloccate e quindi un Parlamento di nominati; addirittura un ballottaggio fra le due armate Brancaleone più votate al primo turno, ovvero fra chi non rappresenterà insieme nemmeno la metà del corpo elettorale. È populismo questo? Buono, soffice?
Andiamo più in profondità. Il populismo sostiene che i cittadini vengono sistematicamente espropriati della loro volontà dai politici di professione; che ogni popolo ha diritto alla propria identità e alle proprie tradizioni; che è necessario un controllo dal basso degli eletti; che vanno rafforzati gli strumenti della democrazia diretta (referendum in primis); che c'è un'erosione di sovranità nazionale e un eccesso di invadenza dello Stato. Tutto ciò ne fa all'interno della realtà europea un insieme unitario rispetto al sistema vigente, ma non uniforme, proprio perché legato a dinamiche nazionali fra loro diverse. Tuttavia, è l'esatto contrario di una democrazia intesa come imposizione di una ideologia consumista, cosmopolita e tecnica, più che tecnocratica, tendente cioè a utilizzare gli strumenti atti a governare (sistemi di voto, organizzazione della sfera politica, costruzione delle leadership) sempre e comunque in una logica di casta professionale, qual è quella prospettata da Renzi.
Ora, e ancora, che cosa c'entri quest'ultima con il populismo, lo sa solo Rodotà. Il quale probabilmente indica il dito per nascondere la luna di sua appartenenza, ovvero lo scontro in atto all'interno di una stessa classe politica, elitaria, a circuito chiuso, tendente all'auto-riproduzione, in cui quelli come lui rappresentano l'antico e i nuovi barbari del giovane fiorentino il moderno. Nel senso che ne vogliono prendere il posto e sfruttano tutti quegli elementi negativi negli anni accumulatisi: eccesso di burocrazia, bicameralismo perfetto nella sua uguaglianza, ma imperfetto quanto a efficacia e efficienza, sacche di potere politico-clientelare, proliferazione di istituzioni parassitarie pubbliche, eccetera.
Si dirà, sono fatti loro. Purtroppo però sono anche fatti nostri e converrebbe rifletterci sopra. Riflettere, per esempio, sul fatto che la governabilità non è resa sicura solo da un marchingegno tecnico: la storia italiana, anche quella più recente, è piena di esecutivi sfarinatisi come neve al sole pur avendo maggioranze blindate. Anche e soprattutto perché se a comporli sono interessi di gruppo e interessi individuali, nessuna disciplina interna è in grado di gestirli.
Il fatto è che gli italiani sono stanchi, preoccupati e anche spaventati. La crisi morde loro, non certo i politici di professione. In mancanza d'altro, vorrebbero un po' di tregua, un governo non che governi, ma che non faccia danni. Sono persino disposti a credere alle favole, e Renzi le sa raccontare. Sorprende però che alla favola della governabilità creda anche Forza Italia, concorrendo a varare una riforma che gli si rivolterà contro e lo vedrà terzo scomodo in un duopolio esiziale. D'altra parte, se dici al tuo elettorato che Renzi è bravo e va aiutato, perché poi dovrebbe votare per te? Ma questa, come diceva Kipling, è un'altra storia...
Renzi, che è una curiosa via di mezzo fra Calandrino e Castruccio Castracani, ha gioco facile a porsi come modernizzatore della scena politica. Ha l'età giusta, è ambizioso, cresce sulle disgrazie altrui. Però rappresenta un 30 per cento dell'elettorato e l'idea che in nome della governabilità quel trenta diventi più del cinquanta, fa capire che qualcosa nella rappresentazione degli italiani non torna.
Nessuno comunque sembra pensare che forse bisognerebbe coinvolgere di più il cittadino elettore. Si pensa che la cosa migliore sarebbe farne a meno. Se non votasse, sarebbe l'ideale, ma siccome c'è ancora una buona metà che si ostina a farlo, la imbrachiamo in un sistema che permette di governare anche se non si hanno i numeri, e la legittimità, per farlo.
Certo, non ci sono più le idoneità collettive, e i partiti hanno da tempo smesso di rappresentarle, divenendo il veicolo degli interessi di quelli che, spregiativamente, ma giustamente, definiamo i «politicanti», ma è chiaro che il problema italiano è proprio un problema di credibilità e di rappresentatività. C'è un popolo, ma fa paura il populismo...
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