Roma - Riforme, avanti piano. Alla fine nei giorni scorsi è sbottato perfino Enrico Letta, costretto dal suo ruolo a vestire l'abito del temporeggiatore. «Giocare a far finta di fare le riforme non basta più. Un sistema che non decide è da riformare» ha detto alcuni giorni fa nella riunione del gruppo Pd, provando a far schioccare la frusta sopra i malumori dei suoi parlamentari. D'altra parte è un fatto che il motore del restyling istituzionale fatica a carburare, nonostante gli sforzi di Gaetano Quagliariello, diviso tra le infinite riunioni del lunedì con i saggi e i solleciti a fare presto rivolti alla strana maggioranza che sostiene il governo. Insomma, trascorsi ormai i primi, fatidici cento giorni dell'esecutivo, il pericolo di un nulla di fatto inizia ad aleggiare così come la prospettiva di lasciare intatto il totem apparentemente immodificabile della nostra Costituzione.
I nodi da sciogliere sono molti. Innanzitutto sul piano procedurale. Il ddl sul finanziamento ai partiti, ad esempio, è slittato - dovrà essere licenziato in commissione entro il primo di agosto - per concedere assoluta priorità al ddl sulle riforme costituzionali. Il nome non accenda false illusioni. Quest'ultimo, infatti, altro non è che il disegno di legge costituzionale che costruisce il «quadro» per le riforme, ovvero stabilisce le regole, istituisce il comitato dei 42 che dovrà redarre i testi e modifica l'articolo 138 della Costituzione, diminuendo i tempi di «intervallo» tra le deliberazioni delle Camere (da tre mesi a un mese) pur conservando il referendum confermativo. Il motivo di questa accelerazione? Il ddl rischia di finire su un binario morto. Inizialmente l'obiettivo era quello di approvarlo entro agosto ma ci sarà uno slittamento. Il voto finale avverrà il prossimo 6 settembre, dopo una mediazione con i grillini che considerano la modifica del 138 una sorta di attentato alla Costituzione e hanno cercato con il loro ostruzionismo di allungare i tempi.
Letta per le riforme ha chiesto 18 mesi di tempo ma è ormai presumibile che questa road map subirà un piccolo ritardo e ne saranno necessari almeno 20 o 21. Attualmente sia il ddl sul finanziamento ai partiti sia quello sulle riforme istituzionali sono in commissione Affari costituzionali. Ma quest'ultimo settimana prossima verrà incardinato in aula. Lunedì prossimo, invece, ci sarà l'ultima riunione dei saggi, saggi che poi dovranno presentare il loro documento alla ripresa autunnale e preparare il terreno per la redazione dei testi veri e propri. Senza dimenticare che, prima della pausa estiva, ci sono da convertire ben sei decreti legge e questo andrà a intrecciarsi con lo sprint di fine luglio.
Al di là delle procedure c'è poi il merito delle riforme sulle quali si è depositata una fitta nebbia. Sul finanziamento ai partiti il governo si è impegnato a non fissare tetti per le donazioni dei privati, quelle contribuzioni volontarie che rappresentano il ribaltamento della filosofia attuale dei «rimborsi» automatici da parte dello Stato. Guglielmo Epifani, però, spinge per fissare un limite alle donazioni. Inoltre si sta consolidando l'asse trasversale dei segretari amministrativi che fanno risuonare l'allarme «casse vuote» e chiedono di rivedere la norma, prevedendo almeno una quota minima di finanziamento pubblico.
Sui contenuti delle riforme istituzionali l'aspetto meno spinoso almeno nelle dichiarazioni di intenti dei leader di partito - appare il taglio dei parlamentari. Molto più duro individuare un accordo sul presidenzialismo e sulla cancellazione del bicameralismo perfetto che comporterebbe la sostanziale cancellazione del Senato (Pietro Grasso sarebbe perplesso all'idea di diventare una sorta di commissario liquidatore dell'assemblea da lui presieduta) con la sua trasformazione in Camera delle autonomie regionali, composta da rappresentanti espressi dalle Regioni e non più da senatori.
Anche sulla legge elettorale non si intravedono grandi spiragli. La volontà è quella di legarla alle riforme istituzionali e adattarla come un vestito alla nuova forma di governo. In molti, però, vedono nel Porcellum una sorta di assicurazione sulla vita del governo Letta. Inoltre nel Pdl c'è malumore per il fatto che si sia deciso di non toccare i Titoli IV e VI della Costituzione, ovvero di non sfiorare la magistratura e la Corte costituzionale. «Evidentemente ci sono fili di corrente scoperti che non si possono toccare» dice Raffaele Fitto. La matassa, insomma, non è certo facile da dipanare anche perché in questa situazione di incertezza nessuno scopre le carte vere.
E tutti aspettano di capire cosa succederà dopo la sentenza della Cassazione e il congresso del Partito democratico per capire se davvero varrà la pena far uscire il treno delle riforme da un binario morto e farlo arrivare a destinazione. Oppure se sarà meglio insistere con la melina.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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