Oltre a fermare il declino, qui bisogna fermare il degrado e la sciatteria che minacciano di renderci la vita ancora più grama. Se c'era una cosa in Italia confortante, una specie di miracolo di efficienza, questa era il cosiddetto Frecciarossa, cioè l'alta velocità da Torino a Napoli, che non solo aveva accorciato le distanze fra Nord e Sud, ma consentiva ai passeggeri di usufruire di un buon livello di comfort durante il viaggio: poltrone comode, distribuzione gratuita di giornali, caffè decente, varie bibite e perfino ottimi aperitivi. Tutto ciò aiutava chi affrontasse lunghe trasferte a non soffrire troppo di noia nell'attesa di giungere a destinazione.
Personalmente ero tanto ammirato da Trenitalia da esserne diventato in breve tempo un tifoso. Apprezzavo talmente le piacevolezze garantite dalle nostre ferrovie da aver rinunciato per sempre all'aereo. Ogni volta che si trattava di andare da Milano a Roma e viceversa, mai avuto un dubbio: un bel posto in prima classe nella carrozza numero 3 o 4, fila D, cioè una poltrona isolata che mi evitasse il fastidio di avere un dirimpettaio ciarliero e deciso a conversare con me, distogliendomi dalle mie consuete occupazioni, quali la lettura di quotidiani, telefonate, pisolini.
Dimenticavo un altro vantaggio: partire dalla Centrale e arrivare senza soste a stazione Termini ovvero dal cuore di Milano al cuore di Roma: niente autobus, niente taxi. Che meraviglia. La mia strategia era perfetta anche per altro motivo. Udite. Salivo sul treno alle ore 12 (a Milano o a Roma, indifferentemente), mi accomodavo, sistemavo il tavolino e mi dedicavo agli affari miei. Intanto il convoglio cominciava la sua corsa. Trascorsa una mezz'ora, si appalesavano due gentili signore che spingevano il carrello-bar: «Prego, cosa desidera, un Berlucchi fresco, un salatino o un dolcetto?». Perfetto. Sceglievo e sorseggiavo soddisfatto in beata solitudine. Poco dopo, un'altra ragazza cortese domandava: «Prenotazione al ristorante?».
Non rifiutavo di certo. E alle 13.15 mi recavo nell'apposito vagone e mi sedevo alla tavola apparecchiata; consultavo il menu e sceglievo piatti e bevande. Consumavo con calma - prezzi modici - e tornavo verso le 14 nel mio «loculo». Tempo 50 minuti circa, eccomi alla meta. Che vuoi di più dalla vita? Frecciarossa aveva risolto tutti i miei problemi. Nel giro di 24 ore, risparmiando fatica e sballottamenti fastidiosi che comporta il volo, riuscivo a spostarmi dalla mia città alla capitale e a sbrigare le mie faccende in tutto relax.
Una volta mi capitò un imprevisto. Il treno veloce preferito era tutto esaurito e ripiegai su Italo, il suo agguerrito concorrente privato, quello di Luca Cordero di Montezemolo, per intenderci. Esperienza scoraggiante. Dell'aperitivo non se ne parlò neanche, dei giornali neppure. Quanto al vagone ristorante, scordarselo: non c'era e non c'è. Dovetti afferrare una hostess per la giacchetta mentre correva in corridoio incurante dei miei gesti finalizzati ad attirare la sua attenzione.
Infastidita, ella mi guardò allarmata e stizzita: «Cosa vuole?». Risposi: «Pranzare, perdio!». Mi porse un menu; indicai alcuni cibi e lei mi portò un quarto d'ora più tardi un cestino simile a quello che davano - negli anni Cinquanta - ai bimbi diretti in colonia per le vacanze estive. Lo aprii e vi scoprii alimenti freddi e diversi da quelli ordinati. Chiesi spiegazioni. «Questo è quanto ci è rimasto», precisò la gentildonna.
Scocciato, telefonai a Luca - il padrone di Italo - e gli raccontai l'accaduto. Sorpreso, ma cortese, Montezemolo disse: «Adesso sono fuori sede, ma quando rientro ti chiamo e ci vediamo per parlare di treni e non solo». Sto ancora aspettando. Riflessione. L'impresa privata che desidera fare concorrenza a quella pubblica, stando alle regole, non dovrebbe offrire un migliore servizio a prezzo più conveniente? Nella fattispecie avveniva il contrario. Ora non più. Giacché anche Frecciarossa perde i colpi. Ieri, come d'abitudine, alle ore 12 salgo sul Frecciarossa a Termini, carrozza 3, sedile 7D e, bevuto l'aperitivo, aspetto l'addetta alle prenotazioni del ristorante. Invano. Cosicché alle 13 mi alzo e mi avvio alla carrozza 5 adattata a sala da pranzo. Vi accedo e constato con raccapriccio che i tavoli non sono apparecchiati.
Oddio, che succede? Mi dicono: «Oggi niente ristorante. È inattivo per mancanza di personale». Perché? «Perché sì. Siamo in pochi e non ce la facciamo a sopportare l'insostenibile pesantezza dell'incombenza». Osservo: «Ma io ho sborsato l'insostenibile prezzo del biglietto comprendente la possibilità di pranzare, quindi datevi una mossa. Capisco che in caso di emergenza venga meno la qualità del servizio, ma non l'assenza del medesimo che, comunque, andava eventualmente comunicata tramite l'altoparlante ai viaggiatori o utenti o clienti o come diavolo li volete definire». Spallucce. Sbuffi.
Risultato: «Se proprio muore di fame, qui ci sono dei tramezzini». Ne ho ordinato uno. Ho tentato di mangiarlo. Orrendo, ma non a buon mercato. Ho sganciato 13 euro e mi sono allontanato smoccolando. È crollato un mito, quello di Frecciarossa, che si è adeguata rapidamente all'andazzo italiota. Chissenefrega dei passeggeri. Chissenefrega se essi non ottengono quanto previsto dalle tariffe pretese dall'amministrazione ferroviaria. L'importante è che versino le tasse e il prezzo del biglietto. Poi vadano al diavolo.
A questo punto si apre una prateria per Italo, in teoria. Ma se Montezemolo non si rende conto che col cestino dei bimbi tradotti in colonia non si supera Trenitalia afflitta da problemi sindacali, il nostro Paese deraglierà o procederà a marcia indietro in una gara a chi fa più schifo tra il pubblico e il privato.
segue a pagina 18
di Vittorio Feltri
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