Lo slogan con cui Enrico Letta torna da New York per affrontare il tornante più difficile dei suoi cinque mesi da premier è tosto: «Prendere o lasciare». Il presidente del Consiglio, dicono i suoi, è deciso a uscire comunque «da leader» dalla bufera che fa tremare il governo: o da leader di una compagine solida che di qui al 2015 attui un serrato programma di rilancio economico e riforme, senza più fibrillazioni e contestazioni e sfinenti trattative su ogni provvedimento. Oppure, il Pdl si prenda davanti al Paese la responsabilità di staccare la spina e in quel caso, spiegano, «Letta avrà le carte per giocarsela e portare lui il Paese al voto, in primavera ». Prima una ridda di incontri (Franceschini, Alfano, Epifani) culminata con la visita al Colle. Poi a sera il primo round in Consiglio dei ministri. E che il gioco si sia fatto duro lo si capisce subito, attorno al tavolo rotondo di Palazzo Chigi. Letta esordisce, come aveva anticipato ai suoi, «battendo i pugni sul tavolo» e annunciando che «in questo clima e senza un chiarimento definitivo non è possibile andare avanti con la normale attività di governo».«O si rilancia o si chiude questa esperienza», metterà nero su bianco nel comunicato finale. Quindi, torna nel cassetto la manovrina di correzione dei conti e il decreto che dovrebbe bloccare fino a gennaio l’aumento dell’Iva, che scatta il 1 ottobre. «Impossibile impegnare il bilancio per miliardi di euro senza avere la certezza della continuità del governo e del Parlamento », spiega il premier.
E il gioco è subito chiaro: o il Pdl assicura il proprio sostegno su un’agenda di governo«prendere o lasciare», o gli verrà messo in conto anche l’odioso aumento delle tasse. Il cannoneggiamento inizia subito, fuori dal palazzo, con i dirigenti Pd che accusano uno dopo l’altro via agenzie: «Il Pdl mette a rischio i conti del paese» (Luigi Zanda, capogruppo al Senato), «La follia del Pdl fa saltare lo stop all’Iva» (matteo Colaninno), «Il centrodestra si muove contro gli interessi dell’Italia» (Roberto Speranza, capogruppo alla Camera). Un tiro concentrico e chiaramente preordinato, secondo il centrodestra. Alfano contrattacca: «Siete voi del Pd che tra congresso e cecità antiberlusconiana avete cacciato il governo in questa situazione». Il Consiglio, nel silenzio attonito degli altri ministri, si trasforma in un furioso botta e risposta tra i due capidelegazione dei partiti, Franceschini da un lato e Alfano dall’altro, che somiglia ad un frenetico gioco del cerino. Il vicepremier chiede che il tema della giustizia faccia parte del nuovo programma su cui Letta intende chiedere la fiducia alle Camere, a inizio settimana. Il ministro dei Rapporti con il Parlamento ribatte: «Per voi giustizia è solo sinonimo dei problemi giudiziari di Berlusconi: non baratteremo la durata del governo con il rispetto delle regole». Anzi, affonda, «nel programma del chiarimento dovremo scrivere chiaro: ’rispetto dello Stato di diritto’».
Il «prendere o lasciare» di Letta è chiaro: o il Pdl gli vota la fiducia su un’agenda di impegni che consenta al governo di veleggiare senza ulteriori intoppi fino al semestre europeo, separando definitivamente le sorti dell’esecutivo da quelle giudiziarie di Silvio Berlusconi. Oppure Letta sceglie di«cadere in piedi»,rompendo con il Pdl, su una linea che non prevede più quelle «concessioni e cedimenti» al Pdl che i suoi gli contestano.
Una mossa con la quale il premier conta di blindare attorno a sè anche un Pd sempre più insofferente alle larghe intese, e di diventare - se il governo cadrà - il candidato naturale per la prossima premiership. Cn tanti saluti al congresso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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