RomaLe banche chiudono i rubinetti e lasciano le aziende senza credito, proprio nel momento più difficile. A risentire del credit crunch (così si chiama la stretta nei finanziamenti) è soprattutto il manifatturiero che sta risentendo anche degli altri aspetti della crisi, tanto che il potenziale produttivo italiano in questi anni si è ridotto del 15%. Allarme duplice sullo stato dell'economia reale. Il primo lanciato non da un'associazione di imprese, ma da Standard&Poor's. In un report reso noto ieri, l'agenzia di rating ha calcolato che nel 2013 le banche hanno tagliato alle imprese italiane 44 miliardi di euro in finanziamenti. Una cifra curiosamente simile a quella ufficiale dei debiti della pubblica amministrazione verso i privati. Simile anche nell'effetto perché la stretta nel credito sottrae liquidità al sistema produttivo già debilitato dalla crisi.
A rendere ancora più grave il calo, il fatto che, rileva S&P, le imprese italiane attingono il 92% del loro fabbisogno finanziario di breve e lungo termine proprio dalle banche. È sempre stato così, ma non potrà continuare a lungo. «Questa provvista sta diventando meno disponibile in quanto le banche italiane hanno avviato un percorso di riduzione della leva finanziaria». A causa di questa tendenza e grazie «all'allentamento della legislazione d'impresa e fiscale per le medie imprese che è stata introdotta in Italia - si legge nel report - probabilmente nei prossimi anni sarà incoraggiata l'emissione di più obbligazioni», che compenserà la stretta del credito delle banche. L'anno scorso le imprese italiane hanno emesso un ammontare netto di 20 miliardi di euro in bond colmando, peraltro solo in parte, il taglio dei finanziamenti da parte del sistema bancario. Nei prossimi anni il ricorso di obbligazioni potrebbe salire fino a rappresentare una quota tra l'11 e il 14% dei finanziamenti, 14-17% se ci sarà la ripresa. Peccato che, fino ad ora, ci sia stato uno «scarso interesse» verso questo tipo di emissioni «da parte degli investitori istituzionali italiani». Cioè dalle stesse banche. Meglio gli investitori esteri che rappresentano l'80% dei sottoscrittori dei bond delle aziende.
L'allarme sul credit crunch non è una novità per Confindustria. Ieri il centro studi di viale dell'Astronomia ha snocciolato nuovi dati che testimoniano come la crisi non sia finita. «L'Italia rimane la settima potenza industriale, ma la sua base produttiva è messa a rischio dalla profondità e dalla durata del calo della domanda», avverte il Rapporto sugli scenari industriali, secondo il quale «la crisi ha già causato la distruzione del 15% del potenziale manifatturiero italiano». Nel manifatturiero, ed escluse le ditte individuali, il saldo tra nuove imprese e chiusure è in rosso di 32mila unità. Nel quadriennio 2009-2012 sono 55mila le imprese cessate, calcolano gli economisti di Viale dell'Astronomia.
In termini di posti di lavoro persi, il conto della crisi è pesantissimo. Dal 2007 al 2012 le aziende hanno tagliato 539mila dipendenti e ora, spiega il centro studi di Confindustria, dovranno continuare a ridimensionare il capitale umano e si rischia di superare «le 724mila riduzioni del periodo 1980-1985».
Per invertire la tendenza il vicepresidente di Confindustria, Fulvio Conti, ha rilanciato il piano degli industriali. In sintesi, semplificazioni, riduzione di 11 punti degli oneri che gravano sul lavoro, detassare salari, produttività, lavoro più flessibile. Poi il credit crunch.
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