Ci ha provato un anno fa, con un'interrogazione all'allora Guardasigilli Anna Maria Cancellieri, per segnalare le anomalie del processo sulla trattativa Stato-mafia. Ma non ha avuto risposta. E dunque ci riprova ora, un anno dopo, col nuovo ministro di Giustizia, Andrea Orlando, e pure col Csm. Perché Tito Di Maggio, senatore dei Popolari per l'Italia, membro della commissione Antimafia ma soprattutto fratello del giudice Francesco Di Maggio, trascinato da morto dentro il processo di Palermo con l'insinuazione che sia stato un tassello del presunto patto coi boss, non ci sta a che si continui a buttar fango sulla memoria del suo congiunto nonostante le testimonianze unanimi di colleghi (l'intero pool Mani pulite di Milano) che lodano il fratello come magistrato integerrimo. E nonostante una sentenza, quella che un anno fa ha assolto il generale Mario Mori dall'accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, che riabilita l'operato e la figura da vicedirettore del Dap di Francesco Di Maggio e che dice che no, la trattativa non c'è stata.
Senatore, il clima attorno al processo sulla trattativa Stato-mafia è sempre più pesante, chiunque sollevi dubbi viene messo alla gogna...
«Chi tocca questo processo viene additato come il più mafioso che esista sulla terra. Ma io sono stato educato alla cultura della certezza del diritto, e ho avuto come mentore uno dei magistrati più impegnati nella lotta alla mafia, mio fratello».
Suo fratello, su cui dopo la morte sono state gettate ombre.
«Ricordo il mio primo interrogatorio davanti ai pm di Palermo. Porto le carte trovate in casa di mio fratello. A un certo punto Di Matteo, nell'indifferenza di Ingroia che smanettava col suo iPad, mi chiede: Come mai parla di queste cose solo adesso?. Perché pensavo gli rispondo che la storia di mio fratello fosse di per sé sufficiente a scongiurare qualsiasi dubbio sulle sue linee di condotta. E pensavo che voi, suoi colleghi, non aveste difficoltà a prendere il fascicolo del Csm per conoscere cose di dominio pubblico e che sono suffragate da magistrati come Saverio Borrelli e Adolfo Beria d'Argentine. Ma è possibile che una certa antimafia in servizio permanente effettivo continui a speculare sulla memoria di persone che hanno rappresentato una seria e rigorosa lotta alla mafia? Come si può affidare a un gup come Piergiorgio Morosini il compito di decidere del processo, quando lo stesso magistrato sulla trattativa ha scritto un libro prima ancora di deliberare?».
Perché hanno trascinato suo fratello nel processo sulla trattativa?
«Perché quando i processi si fanno per teoremi tutto quello che è funzionale al teorema viene utilizzato. A Palermo si sta celebrando un processo che non dovrebbe essere celebrato, basato sul nulla, come dimostrano i tentativi di riabilitarne la fondatezza con fatti eclatanti. Due cose mi hanno turbato in maniera particolare: lo sproloquio del procuratore aggiunto Vittorio Teresi contro la sentenza di assoluzione del generale Mori; e la vicenda delle minacce di Riina, assurte agli onori delle cronache nel tentativo mediatico di distogliere l'attenzione dal nulla processuale per prospettare una emotività collettiva tale da condizionare lo stato d'animo del tribunale. Rilevo una cosa, da siciliano. Credo che Riina anziché minacciare di morte Di Matteo dovrebbe vederlo in spirito di riconoscenza, perché ha messo sotto processo Mori che lo ha arrestato. Ma come si fa a inquisire il gotha dell'intelligenza investigativa dell'Arma come il generale Mori? Ho sempre ritenuto che le sentenze siano una sorta di esame al quale accusa e difesa si sottopongono. Mori si è sottoposto a questo giudizio per ben due volte, e non solo ne è uscito assolto, ma, per quello che hanno scritto i magistrati nell'ultima sentenza, credo che ai vari Di Matteo e Ingroia dovrebbe essere tolta la funzione. E mi spiace che nessuno si sia accorto di quale rivalutazione quella sentenza faccia dell'operato di mio fratello».
Teme, visto il clima, che il processo in atto a Palermo possa esserne influenzato?
«Ho così tanto rispetto della magistratura che fatico a credere che sia un processo già scritto. Pur tuttavia la strapotenza mediatica messa in campo induce a ritenere che questo sia un processo già celebrato. E io credo di esserne la prova provata».
In che senso?
«Alla prima udienza sono stato cacciato dall'Aula dal presidente del tribunale, su richiesta del pm di Matteo, perché essendo testimone di quel processo non avrei potuto presenziare. Peccato però che ancora le testimonianze non fossero state né valutate né ammesse.
Crede che la sua interrogazione avrà risposta, cambiati Guardasigilli e governo?
«Mi auguro di sì».
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