Roma - Se nel Pdl la tensione è alle stelle, lo psicodramma nel Pd non è certo da meno. «Stavolta anche Napolitano teme che la situazione stia sfuggendo di mano», confida un maggiorente del partito. Si ragiona già di scenari post crisi, di un Enrico Letta dimissionario e reincaricato che torna in aula a cercarsi una maggioranza di emergenza per mettere in sicurezza la legge di stabilità, che va varata entro l'anno, e per fare un ultimo tentativo di correzione del Porcellum (la bozza, «l'unica possibile» dice un Pd governativo, già c'è: preferenze e soglia altissima per il premio: «Così non vince nessuno e dobbiamo rifare le larghe intese», è la chiosa maliziosa).
Ma se crisi sarà, nel Pd lo dicono tutti, il Letta bis non esiste: nessuna maggioranza alternativa, al massimo un governo che porta alle elezioni anticipate. Già sulla data del voto, però, ci si divide: chi sostiene Matteo Renzi vede la deadline a febbraio, dopo la celebrazione del congresso e con il sindaco di Firenze saldamente in sella al vertice del partito. Chi lo osteggia, invece, tifa per un redde rationem immediato, già a novembre, con l'obiettivo di rinviare le assise. «Ovviamente - spiega il bersaniano Zoggia - andranno subito convocate le primarie per la premiership». Le vincerà Renzi, questo è scontato, ma intanto il segretario resterà Guglielmo Epifani, «e le liste elettorali le farà lui», insinuano i bersaniani, grazie al preziosissimo Porcellum.
Per questo, racconta un renziano di prima fila, «ieri mattina, dopo la bagarre nella Giunta che ha mandato all'aria le trattative in corso, Pier Luigi Bersani era di buon'ora in Transatlantico con un sorriso a 32 denti». Per l'ex segretario l'obiettivo principale resta quello, impedire che Renzi si prenda il partito e faccia piazza pulita, anche in Parlamento, della vecchia guardia bersaniana. Quindi ben venga una crisi.
E per questo, in un Pd senza leadership riconosciuta e ridotto a un coacervo di feudatari in lotta tra loro, la nebbia dei sospetti si taglia con il coltello. Ma un umore di fondo sembra chiaro: una ampia fetta del partito, per ragioni diverse, è pronto a girare le spalle al governo Letta e anche al nume tutelare delle larghe intese, Napolitano. Basta governo con Berlusconi, che «non riesce a produrre niente e ci tiene ammanettati al declino del Cavaliere, prosciugando i nostri consensi», si sfoga un dalemiano: meglio il lavacro elettorale.
E Napolitano? «Noi ci siamo piegati ai suoi voleri, abbiamo lealmente sostenuto Letta. Ma ormai è chiaro che così non si può reggere, non possiamo restare per tutta la legislatura sotto il ricatto di Berlusconi», è lo sfogo eloquente - anche se ovviamente anonimo - di più di un esponente Pd. Napolitano se ne deve fare una ragione: la sua creatura politica «non sta in piedi».
Una trattativa con il Pdl, per allungare il più possibile i tempi dell'esame in Giunta e proteggere il governo, c'era eccome. Tanto che, raccontano, lo stesso capogruppo Pd al Senato Zanda nel fine settimana si era fatto carico di un giro di telefonate tra i capibastone del partito per avere il loro avallo al rinvio in aula del voto sulle pregiudiziali presentate dal Pdl. Nessuno, a quanto pare, aveva fatto obiezioni. Solo che poi, lunedì, il meccanismo si è inceppato: c'è chi dà la colpa al relatore Pdl Augello, chi accusa di doppio gioco Zanda «che ascolta solo gli ordini di Ezio Mauro» e dunque ha impresso un'accelerazione, spiazzando il Pdl.
Ieri si è corsi ai ripari, con contatti frenetici tra Palazzo Chigi e la presidenza del Senato per trovare un escamotage procedurale che permettesse di rinviare ancora il voto. La mediazione è stata affidata, su richiesta di Letta, a Scelta Civica. La frenata c'è stata, la crisi immediata è stata scongiurata. Ma fino a quando?
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