Roma - Erano in molti ieri sera, nel Pd, ad aspettare col fiato sospeso l'intervista da Fabio Fazio per capire se la linea di Bersani sarebbe stata quella «o io o morte» annunciata poche ore prima da Stefano Fassina. E alla fine, qualche minimo sospiro di sollievo è stato tirato.
Certo Bersani ha ribadito che «immaginare che noi possiamo fare qualche accordo con chi ha fermato il cambiamento, ossia il Pdl, è irrealtà». Ha rinnovato il suo appello a Grillo, con annessa minaccia: «Dica cosa vuole fare, altrimenti andiamo tutti a casa, anche lui». Ha tuonato che «la prima parola spetta a noi», per fare «un governo di cambiamento» che lui spiega di avere «già in mente», con gli «otto punti di programma» già espressi via Repubblica e con una compagine «largamente rinnovata». Però quell'aut aut secco con cui il responsabile economico Pd aveva fatto gelare il sangue a molti dirigenti del partito e - presumibilmente - mandato su tutte le furie il capo dello Stato («Un altro governo tecnico sarebbe un suicidio, deve provarci chi ha ricevuto il consenso e se non è possibile si deve tornare a chiedere il consenso agli elettori»), Bersani non lo ha riproposto.
È già qualcosa, per gli angosciati dirigenti del Pd che stanno attuando una martellante moral suasion sul segretario affinché si presenti alla Direzione di mercoledì con una posizione che eviti la spaccatura. Perché certo sulla linea dura dell'incarico a Bersani e se non va in porto elezioni, articolata dai «Giovani Turchi» bersaniani e che suona come un grillesco «vaffa» ai moniti del capo dello Stato (che solo sabato ha chiesto al Pd un po' di «realismo» e di evitare di asserragliarti su «categoriche» posizioni di parte) il grosso del gruppo dirigente non potrebbe seguirlo. E nel Pd si aprirebbe uno scontro dagli esiti devastanti.
Bersani, nelle ultime ore, ha continuato a negarsi al telefono a molti di loro. Ha fatto sabato una riunione cui erano invitati (oltre ai fedelissimi Errani e Migliavacca) solo Franceschini, Letta e D'Alema. Fuori l'altra capogruppo Anna Finocchiaro, fuori la presidente Bindi, fuori naturalmente Walter Veltroni, che è stato il più chiaro nel definire «non praticabile» l'ipotesi Bersani-Grillo. Ieri l'appello che usciva dal Nazareno era quello a «stare uniti», dunque a non criticare né delegittimare il segretario. Il quale, assicura un dirigente dalemiano, «ha capito che Napolitano non farà fare questa operazione: se non c'è un'apertura chiara di Grillo, e dunque una maggioranza possibile in Senato, non darà l'incarico a Bersani». Ma il Pd deve continuare a fare la faccia feroce contro ogni ipotesi di inciucio col Pdl: «È chiaro che Grillo ci vuole spingere a quello, e che in questa fase uno sbocco del genere squasserebbe il Pd, dunque dobbiamo continuare a negarlo recisamente». Ben sapendo che, alla fine, se Napolitano riuscirà a mettere in pista il governo «tecnico» o «di scopo» di cui si parla, è inevitabilmente con il Pdl (e con Monti) che lo si dovrà appoggiare. Per questo, nella sinistra bersaniana, il ruolo di Napolitano viene visto con crescente insofferenza: «Ci ha impedito già due volte di vincere, ci ha costretto a sostenere Monti, stavolta non ci stiamo». E si ventila persino l'ipotesi di dimissioni anticipate. L'alternativa elettorale (un voto a giugno o al massimo a ottobre, e con Bersani ancora candidato), evocata dai bersaniani, viene però vista come follia dal resto del Pd: «I Fassina&co.
la fomentano con l'idea che almeno così si prendono il partito loro - spiega un ex ministro - ma il Pd arriverebbe terzo, dopo Berlusconi e Grillo, e sarebbe finito». La linea o Bersani o elezioni, assicurano i più, «non passerà».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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