Con Matteo Renzi seduto sul posto che fu di Bersani e, per eredità naturale, anche di D'Alema o Fassino, cambia il riferimento economico finanziario del Partito democratico: dalle coop rosse al mercato. O, se si preferisce, da Unipol si passa alle Generali.
Da quel celebre «abbiamo una banca» dell'allora segretario Ds Piero Fassino - estrapolato da una conversazione del 2005 con il numero uno di Unipol Giovanni Consorte che gli annunciava la scalata alla Banca nazionale del lavoro - Renzi ha preso tutte le dovute distanze. Non lo ha fatto direttamente. Ma lo ha rimarcato tanto nella sostanza dei suoi riferimenti a un mercato finanziario regolato e moderno, quanto nella vicinanza a soggetti «diversi». Sicuramente nuovi per il capitalismo nazionale, impegnato nell'evoluzione dall'era dei patti di sindacato a quella delle public company.
Non è un caso che proprio D'Alema abbia evocato l'establishment finanziario come uno dei sostegni di Renzi. Scegliendo una sintesi che però, come tale, è inesatta. Perché il sindaco di Firenze non è sostenuto dai tradizionali «poteri forti» quali Fiat, l'Eni o Banca Intesa. O Mediobanca, che pure ieri (per mano della controllata Securities) ha scritto in un report che «la larga maggioranza che Renzi ha ottenuto debba essere vista positivamente». Non è questo il punto, perché tali poteri non sono più tali e tantomeno posso essere forti. Il sistema di relazione dei patti di sindacato di Mediobanca è finito; la Fiat di Marchionne è ormai concentrata su Usa e Brasile; la Banca Intesa di Bazoli non ha più né la forza né il ruolo per proporre operazioni di sistema.
Il contesto finanziario di Renzi è un altro: è quello del grande capitale internazionale, dei fondi d'investimento e dei manager multinazionali. Un mondo del quale il gestore di Algebris Davide Serra, uno dei consiglieri finanziari di Renzi, non è che una spia illuminata per indicare ben altri capitali. Mentre manager come l'ad delle Generali Mario Greco (pubblicamente lodato per il lavoro che sta facendo a Trieste), o come il capo di Luxottica Andrea Guerra (new entry 2013 alla Leopolda) rappresentano l'essenza del passaggio dal capitalismo familiare o di relazione a quello di mercato. In linea con quanto sostiene Diego Della Valle, rottamatore dei salotti buoni del Corriere e di Piazzetta Cuccia che, anche da presidente della Fiorentina, sta tutto dalla parte di Renzi. Il rapporto con questi signori apre le strade verso la grande finanza occidentale, quella a stelle e strisce in particolare, dove Renzi ha e vuole avere i maggiori contatti. E dove intende far valere presto le sue ragioni, come ha dimostrato impugnando pubblicamente la polemica sull'allarme rating lanciato da Standard & Poor's sulle Generali dell'amico Greco.
Si capisce che è una musica ben diversa da quella suonata fino a poco fa dalle parti del Pd. A cui, prima come Pds, poi come Ds, sono addebitate una serie di débâcle: si va dalla razza padana che nel 2000 ha lanciato l'Opa su Telecom dando il via al declino del gruppo; al rapporto incestuoso tra enti locali e banca in quel del Monte dei Paschi di Siena; fino al polmone finanziario delle coop che ha prodotto nel 2005 il fallimento Unipol-Bnl, mentre in queste ore cerca di portare a termine un'operazione, la fusione con Fonsai, dalle cui carte uscite dalla procura di Milano emerge più di un particolare inquietante.
Non può essere un caso che nella terra delle coop, l'Emilia Romagna, nelle primarie per gli iscritti al Pd del 17 novembre Gianni Cuperlo avesse vinto con percentuali dal 42 al 46%. Forse era anche l'estrema difesa di un sistema di interessi economici che si sentiva minacciato. Ma Renzi sembra aver deciso: per parlare di finanza non si telefonerà più a Bologna, ma si chiamerà Trieste.
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