Quel no all'accanimento ridà umanità alla morte

La decisione di rifiutare l'accanimento terapeutico non ha nulla a che fare con l'eutanasia. Ma perché tenere in vita chi non vuole?

Veniamo al mondo per morire. È una constatazione, e insieme una maledizione, ma è così. Nel tempo che ci è assegnato, da Dio, dal Destino, dal Caso, scelga il lettore il termine a lui più consono, cerchiamo di impiegare al meglio questa unica, irripetibile chance che ci è concessa e procediamo fra gioie e dolori, feste, lutti, successi e malattie, con coraggio, con il coraggio della disperazione, con incoscienza. È la nostra vita e nessuna persona sensata accetterebbe che qualcuno la decidesse per lui. Rispettiamo le leggi, rispettiamo i diritti degli altri e però c'è una soglia, quella dei nostri diritti individuali, che non vogliamo sia varcata.

Fra questi ultimi ci dovrebbe essere anche quello a una morte decisa da noi nel momento in cui riteniamo che vivere non sarebbe più vivere, ma un'altra cosa, che non vogliamo, non accettiamo, non siamo più disposti a sopportare. So che mi inoltro in un terreno delicato, e non voglio offendere nessuno, ma il suicidio è questa cosa qui, una scelta estrema di libertà di dire basta. La sua indicibilità è dovuta al fatto che di norma il desiderio di vivere è talmente violento, talmente totalizzante che quel gesto ci risulta incomprensibile. Anche per questo lo spieghiamo e/o lo esorcizziamo con motivazioni psicologiche: parliamo di resa, di vigliaccheria, di confusione mentale... Ci fa paura, ci appare inspiegabile, è fra i gesti umani forse il più calunniato, come fosse inumano. E invece è terribilmente umano.

Fermiamoci un istante e proviamo a partire da un altro punto. La notizia della morte del cardinale Martini e della sua richiesta, accettata, che i medici si astenessero dall'accanimento terapeutico nei suoi confronti, non ha naturalmente nulla a che vedere con l'eutanasia. In dichiarazioni pubbliche, Martini era stato del resto molto chiaro in proposito. Da un lato si era riferito a un «supplemento di saggezza necessario a non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona». Dall'altro, nel sottolineare l'importanza della «volontà del malato», aveva sostenuto «l'esigenza di elaborare una normativa che consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure e protegga inoltre il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio) senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell'eutanasia».

Come religioso e uomo di fede, non penso che al cardinale Martini si potesse chiedere di più ed è chiaro che il suo caso, come del resto sottolineato dal Vaticano, è del tutto diverso da quello di Piergiorgio Welby, che si fece sedare e togliere il respiratore che lo manteneva in vita, o da quello di Eluana Englaro, per la quale decisero i giudici sulla base delle testimonianze raccolte dal padre e tendenti a far rispettare quella che anni prima era stata la volontà in proposito della figlia.

Detto ciò, resta sul tappeto, inevaso, il tema da cui siamo partiti e che si può formulare in un altro modo: chi decide la mia morte? Lasciamo pure da parte l'atto estremo del suicidio per motivazioni che nulla hanno a che vedere con una malattia terminale, ma in quest'ultimo caso chi è che deve stabilire la mia volontà di vivere, e perché? Con quale logica, ma anche con quale umanità un altro, un medico, un legislatore, un sacerdote, deve mettersi al mio posto e condannarmi a una vita che non voglio, perché la ritengo una non vita, perché mi umilia e fa persino sbiadire il mio ricordo di com'ero, mi fa rimpiangere di non essermene andato prima? Scrivo tutto questo nella maniera più piana possibile, non uso citazioni, non chiamo in soccorso filosofi, scrittori, scienziati più illustri (non ci vuole molto) di me, faccio il discorso di un uomo semplice che non riesce a capire perché lo vogliano tenere in vita se lui non vuole più vivere, non ne ha più la forza né la volontà, e neppure il desiderio. Se mi si risponde «perché ogni vita è sacra», mi sarà permesso osservare che è una sacralità inumana nella sua astrazione, un concetto che non tiene conto proprio di ciò che nella vita è il sale, gli individui e la loro diversità, l'impossibilità di ridurli a una cosa sola, il fatto stesso che ciascuna di quelle esistenze sia diversa in ogni cosa tranne che in una: moriamo tutti, appunto. E dunque? Mi rendo conto che l'eutanasia, la sua legalizzazione, il cosiddetto suicidio autorizzato pongono problemi di ordine giuridico, etico, medico, e però mi piacerebbe che ci fosse in un Paese civile la possibilità di affrontarlo senza anatemi, senza gesti eclatanti, senza sentenze di tribunale che riempiono vuoti legislativi, senza la solita guerra di parole e di posizioni con cui ogni cosa naufraga in questa sciagurata nazione che è l'Italia. Mi accontenterei che fosse possibile anche e ancora affidarsi al buon senso, al rispetto di chi alla fine difende l'unico suo diritto inalienabile, alla amorevole complicità di chi si rende conto che «accanirsi», terapeuticamente o meno, non ha veramente senso.

Nessuno si sogna di imporre agli altri la propria volontà e il rispetto delle posizioni altrui è

sacrosanto, va difeso e riconosciuto.
Ma è proprio per questo che non riesco a capire il motivo per cui non possa essere io a decidere di farmi da parte allorché sento di non essere più parte. Di questo mondo, della mia vita.

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