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Randolfo Pacciardi, il mazziniano antifascista che sognava il presidenzialismo

Tra i primi a battersi contro il fascismo, alcuni decenni dopo fu accusato di eversione ma poi venne scagionato. Fervente repubblicano, combatté in Spagna contro Franco

Randolfo Pacciardi, il mazziniano antifascista che sognava il presidenzialismo

In fondo cosa aveva fatto di male Randolfo Pacciardi? Una vita spesa nel combattere il fascismo e poi, in età matura, l’accusa infamante di golpismo e l’isolamento pressoché totale da tutte le forze politiche. La sua unica colpa? Aver sognato il presidenzialismo, tenendo come modello di riferimento la Quinta Repubblica varata dal generale De Gaulle in Francia. Gli diedero del fascista e lo misero alla berlina. E pensare che lui, da giovane, era stato uno dei primi a mobilitarsi contro il fascismo. Lo fece in piazza Venezia, a Roma, quando durante un comizio di Mussolini insieme a un gruppetto di suoi sodali si mise a gridare frasi inneggianti alla libertà. Il giorno seguente il Popolo d’Italia lo schernì: “È bene che la smetta, questo insulso avvocatino di Grosseto”.

È difficile descrivere Pacciardi senza ricordare che è stato uno dei più risoluti antifascisti italiani, fondatore del movimento clandestino “Italia libera” nonché, una volta rifugiatosi in Svizzera, organizzatore di una delle centrali operative più attive contro il regime. E poi l’impegno nella guerra civile spagnola, dove, grazie all'esperienza militare maturata sul campo nella Prima guerra mondiale, andò a comandare la Brigata Garibaldi, al fianco del governo democratico chi si opponeva alla rivolta dei militari. Durante una delle più sanguinose battaglie, sulle sponde del fiume Jarama, è colpito dalle schegge di una cannonata. Dopo essere svenuto si risveglia: ad assisterlo, passandogli un fazzoletto sul viso tutto insanguinato, c'è Pietro Nenni, futuro leader socialista.

Con la fine della seconda guerra mondiale, tornata la democrazia e la libertà Pacciardi si getta nella mischia e, oltre a guidare il Partito Repubblicano, affianca De Gasperi come vicepresidente del Consiglio e poi come ministro della Difesa, dando un fondamentale contributo alla svolta atlantista dell’Italia nel 1947. Avverserà fino alla fine l’avanzata del centrosinistra, al punto che questa “resistenza” gli costò l’espulsione dal suo partito, arrivata nel 1964.

Nei primi anni Sessanta, con i socialisti che stanno per entrare nella "stanza dei bottoni", per usare un'espressione di Nenni, dando vita in alleanza con la Dc al primo governo di centrosinistra, Pacciardi è fermamente convinto che i tempi non siano ancora maturi. Al voto di fiducia in Parlamento il politico toscano pronuncia un discorso durissimo contro la nuova alleanza, e in un colpo solo si mette contro la Dc, il Psi, i liberali, i socialdemocratici e persino il suo partito, il Pri, guidato da Ugo La Malfa, lo mette in un angolo fino alla decisione più estrema, l'espulsione. A questi avversari si aggiungono i nemici storici, comunisti e neofascisti, il quadro è completo: Pacciardi è solo contro tutti. Lui non si piega e continua a pensare alla politica, sua antica passione. Decide di imbarcarsi in una nuova battaglia, quella che non aveva osato intraprendere ai tempi della Costituente: la Repubblica presidenziale. Diventa questo lo scopo della sua vita. Dà vita a un nuovo gruppo politico, "l’Unione Democratica per la Nuova repubblica". Sempre più solo ed emarginato, si circonda di giovani provenienti dalla destra o personaggi, più o meno discutibili, in cerca di un leader controcorrente da seguire.

Questo attivismo gli crea qualche problema con la giustizia. Proprio quando il magistrato Luciano Violante accusa Edgardo Sogno (medaglia d'oro della Resistenza) di aver progettato un colpo di Stato, Pacciardi viene a sapere di essere sotto indagine pure lui per "concorso in cospirazione politica". Gli danno del golpista e gli tolgono gli passaporto. Pacciardi prende carta e penna e scrive a Violante una lettera durissima: "Non sono mai scappato, né di fronte ai soldati austriaci, né di fronte ai fascisti. Non scapperò di certo ora". Prosciolto da ogni accusa, resta comunque isolato. Il suo partito, il Pri, lo riaccoglie solo nel 1981.

Il suo amore per il presidenzialismo Pacciardi lo faceva derivare da Giuseppe Mazzini, in particolare da un discorso che il patriota genovese tenne all’Assemblea costituente della Repubblica romana: “Nella sua grande giornata storica come uomo di governo, al di là delle "chiacchierate dell’Assemblea" [… ] Mazzini in contatto diretto col Popolo anticipava la repubblica presidenziale". Arrivando, qualche anno dopo, a spingersi ancora più in là: "Non è azzardato dire che la repubblica presidenziale col Capo dello Stato e del governo eletto dal popolo è il sistema repubblicano più vicino alle idee mazziniane. E per questo Mazzini fu accusato, anche lui, di carezzare sistemi dittatoriali o addirittura di voler diventare re o papa perché degli scemi in ogni epoca non si perde mai la semenza".

Nei lavori all’Assemblea costituente Pacciardi non propose il presidenzialismo, non tanto perché non l’avesse in mente come possibile soluzione per l’Italia, ma perché, come lui stesso ebbe modo di spiegare più tardi, "non me la sentii di parlare a favore di un ordinamento che dà grandi poteri a un uomo solo, proprio mentre uscivamo da una lunga notte durante la quale un uomo solo aveva provocato quel terribile sconquasso". Insomma, per Pacciardi i tempi non erano ancora maturi per la Repubblica presidenziale.

Siamo agli inizi del 1994, Silvio Berlusconi annuncia la propria discesa in campo. Nel farlo, in un celebre discorso, elenca i padri nobili del pensiero democratico della Repubblica italiana. Accanto ai nomi di Alcide de Gasperi e Luigi Einaudi il Cavaliere fa anche quello di Randolfo Pacciardi.

Trent’anni prima Pacciardi aveva diffuso un appello per una "nuova Repubblica" proponendo la riforma della Costituzione. Il politico toscano partiva dalla denuncia della "degenerazione partitocratica", sottolineando che la Carta in quasi vent'anni era stata "o non applicata, o male interpretata o praticamente calpestata da dittature occulte" e per tale ragione si era rivelata "impari al suo mandato e alle speranze che la libertà aveva suscitato nel cuore degli italiani".

Da ciò era nata la "degenerazione del costume politico" ed una pericolosa "confusione di poteri" che, unitamente alla trasformazione dei partiti in "strumenti di potere", creava una situazione a dir poco esplosiva. Tutti mali, questi, da curare con le necessarie riforme istituzionali.

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