Con 136 voti pro Renzi, 16 contrari (Civati e i suoi) e 2 astenuti, il governo di Enrico Letta muore nella direzione del Pd. E nasce il Renzi uno, con l'orizzonte esplicito del 2018, tutta la legislatura. Il leader del Pd, una volta tratto il dado, è andato fino in fondo come un caterpillar. E ieri pomeriggio, aprendo con una relazione a braccio e sincopata, forse meno trascinante del solito (le ultime 48 ore sono state un insonne inferno) ma assai decisa, Renzi ha rivendicato apertamente quella «ambizione smisurata» che gli viene attribuita per criticarlo: «Vi aspetterete che smentisca queste parole, ma invece non lo faccio: dobbiamo averla, io come l'ultimo delegato». L'ormai premier in pectore ha descritto il «bivio» davanti al quale si è trovato: «O chiudere la legislatura e andare al passaggio elettorale, o trasformare l'esperienza di governo in legislatura costituente». Con l'attuale legge elettorale, ha sottolineato, il voto non risolverebbe: «Sarebbe impossibile avere una maggioranza», quindi meglio correre il «rischio» del governo. Quel che Renzi non dice, ma i suoi sì, è che la strada del voto è stata sbarrata non da lui, ma da chi (Napolitano, Letta, la Corte costituzionale che gli ha cucito addosso la camicia di forza proporzionale, i partiti terrorizzati dalle urne) non lo voleva, magari nella speranza di logorarlo nell'attesa.
La direzione del Pd si è chiusa come previsto: voto a schiacciante maggioranza sul documento che saluta Letta e il suo governo, annuncio a stretto giro di posta delle dimissioni del premier, apertura della strada al primo governo di un segretario Pd. Il documento era assai freddo: il programmone «Impegno Italia» presentato mercoledì da Letta viene accolto come «contributo»: non è certo piaciuto a Renzi che il premier uscente abbia saccheggiato le sue proposte, dal lavoro alle unioni civili allo ius soli, senza neanche riconoscergliene il copyright; e ad alimentare l'irritazione dei renziani c'era stata quella voce, trapelata da Palazzo Chigi, di un'offerta del ministero dell'Economia «mai avanzata».
Ora si apre la fase magari meno drammatica, ma più difficile. Renzi vuole andare di corsa, ma gli ostacoli sono molti. Il calendario di massima prevede oggi il Consiglio dei ministri, l'annuncio delle dimissioni di Letta, la loro formalizzazione al Quirinale. Che nel weekend aprirà le consultazioni: in linea di massima si prevede l'incarico lunedì, e tra martedì e mercoledì prossimi il voto di fiducia in Parlamento. La lista dei ministri è ancora in fieri: Renzi vuole la massima riduzione delle poltrone (dieci, annunciava nella sua campagna alle primarie, massimo dodici), e punta al 50% di donne. Un ruolo importante, da «uomo macchina» dell'esecutivo, lo avrà Graziano Delrio. Pochi posti da distribuire, dunque, e a Ncd ne potrebbe capitare uno solo, magari compensata da più viceministri (il vicepremier difficilmente esisterà). Quel che è certo è che sarà «un governo del presidente», nel senso del presidente del Consiglio: «È a me che i ministri dovranno rendere conto», e che il loro lavoro dovrà essere «intersettoriale».
Ma i ben informati assicurano che questo gabinetto sarà solo «il primo giro» dell'era Renzi. Perché nei piani del futuro premier, la maggioranza che arriverà al 2018 dovrà essere la traccia della coalizione che si presenterà a quelle elezioni.
Dunque il progetto è di sospingere progressivamente ai margini gli alfaniani, rendendoli innocui tramite iniezione di nuove forze, da Sel a Cinque stelle. Con conseguente futuro cambio di ministeri. In Parlamento i segnali di attenzione si moltiplicano, ma «per adesso stiamo fermi», ha ammonito il leader. Di tempo, davanti, ne ha molto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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