Forse non serve l'epica d'Italia-Germania 4 a 3, per non parlar di fatti più antichi. Siamo però ai supplementari, e sulla delicatissima frontiera dei nervi si combatte l'ennesimo Piave: «Europa dei banchieri», impersonata dall'armata finnico-teutonica, contro quella «dei cittadini», di cui l'astuto Matteo Renzi è lesto a impossessarsi.
Comincia con il saluto ai commissari europei, ospitati a Villa Madama, il Semestre europeo italiano. S'allena la fanfara dei lancieri di Montebello, e di lì a poco si capirà che l'armistizio non può ingannare: la guerra è in corso. Formalmente tutto bene, «ottimo rapporto con la Merkel», «non c'è nessuna polemica tra noi e il governo tedesco...», ripete come un mantra il premier (lo aveva fatto anche Padoan in mattinata). Lo stillicidio messo in atto con costanza germanica - un giorno l'attacco del Ppe, un altro della Bundesbank - non riesce a scavare nella resistenza dei nervi renziani. Però cominciano a sentirsi echi di un risentimento profondo. Così l'attacco della Bundesbank viene rispedito al mittente. «Il compito della Buba è quello di assicurare gli obbiettivi di stabilità, non di partecipare al dibattito politico italiano... Rispetto il lavoro della Bundesbank, quando vuole parlare con noi è benvenuta, ma il presupposto è che l'Europa è dei cittadini e non dei banchieri, né tedeschi né italiani». Quindi, dopo una pausa, l'affondo. «Io non parlo delle Sparkassen o delle Landesbanken», sospira puntuto Renzi, e allude alle banche tedesche controllate dallo Stato grazie a un'eccezione al regolamento europeo per la vigilanza sulle casse di risparmio.
Sciabola s'alterna a fioretto. «Ho vinto le elezioni dicendo che il nostro problema non è la Germania, ma l'Italia». Oppure: «La flessibilità serve all'Europa, non all'Italia; a noi serve il processo di riforme che abbiamo iniziato». Il commissario uscente Barroso guarda sornione e partecipa all' «avanti e 'ndre», quasi a controllare e misurare che ogni passo renziano non vada in gol. Ma neppure che ne sortisca un autogol. Cerca di riportare il discorso sugli assodati binari: «Stabilità e crescita», «pacta servanda sunt», «il trattato già prevede la flessibilità». Renzi prova a rintuzzare: «Ma la sola stabilità distrugge il futuro». Barroso però c'è; come un gattone soporifero dorme con un occhio solo. Così rifila qualche graffietto al vicino, giusto quando ne ravvisa il bisogno, ricordando che «nessun leader ha chiesto una modifica delle regole». Sembra un'allusione persino il complimento rivolto a Napolitano: «Se non trovassimo un presidente di Commissione, in futuro potremmo chiedere a lui, è uomo con una grande carica di entusiasmo...». Non solo giovanilismo, i vecchietti sanno il fatto loro. Ma per il resto concede credito alle riforme renziane annunciando che «va data più importanza al deficit strutturale che a quello nominale» (quasi un via libera al superamento del 3 per cento in cambio della riuscita delle riforme). E finisce lodando l'azione italiana nel Mare nostrum, che «ha consentito di salvare migliaia di vite».
Sotto il fiume carsico affiora la battaglia per le nomine dei commissari e le perplessità su Jean-Claude Juncker. Renzi non se la cava male: si distingue dalla posizione dell'inglese Cameron, sottolinea che il suo voto per Juncker è legato al documento che stabilisce la crescita come indirizzo e, con la giusta dose di veleno, afferma: «Sono certo che Juncker rispetterà il documento».
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